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Le guerre incomprese
(l’Unità, 25 agosto 2006) – "Devono smetterla, non se ne può più. Io ce l’ho con tutti e due". Così sbottò durante la cena una ragazza di 22 anni parlando di israeliani e palestinesi. Chiaro, secco, spontaneo. Come di chi non deve preoccuparsi delle sue parole, fare i conti con le diplomazie e con i giornali. Restai di stucco, e non fui l’unico, nell’ascoltare una valutazione – che era anche, ma non solo, uno stato d’animo – così semplice e inflessibile.
Di stucco perché siamo abituati a considerare la vicenda israelo-palestinese (e sullo sfondo tutta la questione mediorientale) un groviglio, un delicatissimo ed esplosivo puzzle, una questione complessa per definizione; forse la più complessa di tutte le questioni internazionali.
La ragazza, per capirsi, ha votato Ulivo, si considera di sinistra e rivendica di volere ragionare con la sua testa. Si è fatta molte manifestazioni per la pace, anche in trasferta. Legge molto. Non è una qualunquista. Conosce relativamente bene, per la sua età, le ragioni degli israeliani e le ragioni dei palestinesi. E, oltre a conoscerle, ne "riconosce" agli uni e agli altri. Più ai palestinesi, mi è parso. Ma non ci sta a pesarle sul piatto della bilancia per decidere da che parte stare. Confesso che di fronte a tanta nettezza ho misurato per la prima volta quale può essere l’atteggiamento di un giovane pacifista verso un tema che ha tradizionalmente marcato i confini tra destra e sinistra. E sul quale ogni parte ha dovuto (e deve senza fine) sostenere il suo esame di maturità. Dimostrare qualcosa di decisivo. I moderati che non sono guerrafondai o antiarabi per il fatto di sostenere Israele e le sue azioni di "difesa" militare. I progressisti che non sono antiisraeliani o antiamericani o addirittura filoterroristi per il fatto di sostenere la richiesta di una terra e uno stato palestinesi; o di provare (aver provato) simpatia per Arafat. Finché, da qualche tempo, le prospettive di destra e sinistra si sono avvicinate, a partire dal principio condiviso del diritto all’esistenza di entrambi i popoli- Stati. E tuttavia, va detto, ognuno pensa di contribuire alla "pace giusta" avendo nel cuore principalmente uno dei due contendenti. Mai mi era capitato di sentire la condanna di entrambi. Mai l’equidistanza, ora giunta in politica alla formula della "equivicinanza", aveva preso, al contrario, la forma della "equilontananza".
E questo qualcosa vuol dire. Mi sforzo spesso di capire che cosa di più esteso e profondo vi sia dietro o sotto qualche parola detta del tutto spontaneamente da una persona. In questo caso io credo che vi sia l’esigenza di rovesciare l’ordine delle priorità. Non "chi ha più ragione?", ma "perché non smettono?". Chi viene al mondo della politica adesso e crede nella pace avverte quasi un sapore di antica, immensa faida. Come chi giungesse in un paese e, vivendovi, scoprisse che lì dinastie familiari si scannano da cinquanta, cento anni. Per nobili, tragiche ragioni originarie, rafforzate da una sequenza infinita di orrori e di orgogli, di audacie e di spietatezze. Ragioni che ognuna delle due parti ha teso a rendere sempre più nobili di quelle altrui. Ma cristallizzate in ideologia, in irriducibilità. E dunque chiedesse, il nuovo arrivato, di non dare alla memoria dei torti subiti il primato sul futuro collettivo. D’altronde c’è un motivo se in quelle terre chi lavora per la pace – da una parte o dall’altra – viene attaccato, minacciato o anche ucciso. E se chi lavora per la guerra e per l’odio rilucida ogni volta le sue antiche ragioni e su quelle costruisce la propria rendita politica. Chi si affaccia ora al nostro mondo nulla sa della guerra dei sei giorni e nemmeno era nato nei giorni terribili di Sabra e Chatila. Ma ha il (diciamo "relativo"?) diritto di guardare al presente e al futuro più che al passato. Un passato che si prolunga imperterrito negli scenari di morte: il kamikaze che fa saltare i bambini su un autobus e la rappresaglia che stermina famiglie di civili (o viceversa); e poi di nuovo la ritorsione e poi ancora la rappresaglia al quadrato. E vede, con disappunto, chi si schiera di qua e chi di là anche da noi. Chi con "l’eroico Stato di Israele", chi con "il glorioso popolo palestinese". Sempre per una "giusta pace". Perciò rovescia l’approccio. Dà un giudizio (non una ricetta) semplice su una questione complessa, nella speranza – forse – di renderla meno infinita e inestricabile.
Ho ripensato a quella frase, di cui la ragazza non ha ovviamente alcuna responsabilità per quanto sto scrivendo. Vi ho scoperto, progressivamente, una radicale domanda di buon senso. Storico. E anche politico. E ho pensato a quanto ne avremmo bisogno, di quel buon senso, su tutti i fronti "complessi" del nostro nuovo rapporto con il mondo. A quanto bisogno avremmo di sapere entrare da pionieri della storia (e non da "imparati") dentro queste trasformazioni epocali, per trovare il modo di farvi vivere e vincere concretamente i nostri valori. Pessima cosa è offrire ricette semplificate. Dei sì e dei no assoluti. E’ davvero cosa cattiva dare cittadinanza più facile agli immigrati perché a Londra i simpatizzanti del terrore sono di seconda generazione? Ma non si diceva una volta che i terroristi allignavano tra i clandestini (da cui il potere salvifico della Bossi-Fini)? O non abbiamo invece avuto in occidente terroristi tra gli uni e tra gli altri, in ogni caso alcune centinaia di sospettati tra decine di milioni di persone? Si può brandire il terrorismo come accusa verso chi vuole una decente politica di accoglienza? E ancora. Si propone una politica differenziata obiettando che i musulmani si integrano più difficilmente, perché hanno una superiore propensione al fanatismo e alla separatezza culturale? Fatta la proposta, ecco che una città del nord, Brescia, ci racconta di una ragazza pachistana così integrata nei nostri costumi da sfidare il suo mondo e le sue tradizioni, e subire una punizione terribile non molto diversa (per gli aspetti di principio) da quel delitto d’onore che il nostro codice penale (la celebre cultura giuridica italiana!) ha protetto fino a pochi decenni fa senza troppo scandalo. Complicato. Complicato anche parlare di immigrati e illegalità. Siamo combattuti. Perché spesso sentiamo denunciare la piccola illegalità con foga perfino eccessiva ma poi a Rimini una folla di bagnanti fa muro contro un eccesso di controlli della polizia municipale nei confronti dei venditori da spiaggia. Complicato, anche, emettere sentenze politiche. Arrivano una dopo l’altra a Lampedusa le navi e le carrette del mare piene di disperati? Ecco che ne diamo la responsabilità alla Bossi-Fini, dimenticando gli arrivi e le tragedie infinite accadute prima di quella legge sulle coste pugliesi. Non serve agitare la fiala dell’ideologia. Così come non giova nascondersi la gravità di alcune forme di criminalità straniera nel timore di soffiare sulle vele infette del razzismo.
Nulla è semplice. Può esserlo, ed è bene che lo sia, l’affermazione dei princìpi. Che poi deve però entrare in un processo faticoso di valutazioni, di scelte e di azioni, in un bilanciamento continuo dei valori; un processo che rappresenta nei tempi della globalizzazione il vero cuore dell’azione di governo. Giocare con la storia a colpi di formule e tabù fa solo danni. Come il comunicato dell’Ucoii; come l’idea che quando Israele bombarda ha ragione o "va capito" per definizione; come la convinzione che l’Italia possa vivere alla stregua di una fortezza o che, viceversa, i nostri confini debbano essere aperti senza limiti. Quando i giudizi si levano al di sopra della realtà o cercano di inchiodarla al passato, allora si prepara comunque, per dolo o per colpa, per cattive intenzioni o per utopia, un futuro di odi e di paure. Normale che un giovane dica "io non ci sto".
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