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Giacinto e il popolo delle camicie bianche
Eccomi qui, rientrato al ministero dopo i primi viaggi per le feste di partito! E ne sono contentissimo. Non vedo l’ora di dar corpo e forma a tutti i progetti lucidati con il pensiero durante le vacanze. Ho un grande rammarico, però. Non potere essere oggi a Milano ai funerali di Giacinto Facchetti, il grande campione della mia Inter degli anni sessanta. Quell’Inter mi ha reso felice, così come può essere reso felice un ragazzino dalla sua squadra del cuore che vince sempre. Meglio: quasi sempre, giusto per salvare quel sano principio pedagogico secondo cui anche i dolori temprano. E in effetti per me vedere l’Inter che perdeva lo spareggio di campionato (l’unico della storia) con il Bologna o che perdeva la finale di Coppa Campioni (mica Champions League…) con i Rangers di Glasgow era un discreto dolore. Esagerato? Ma mettetevi nei panni di chi alle superiori cambia quattro città in cinque anni. A che deve attaccarsi per sapere chi è, a chi deve appellarsi per presentarsi con orgoglio ai suoi sempre nuovi compagni, se non alla squadra amata che vince in tutto il mondo?
Amo i campioni di allora; a uno di loro, il Capitano, Armando Picchi, ho anche dedicato un libro. Facchetti era la potenza atletica, l’armonia delle forme gigantesche (non è facile…), ma anche la correttezza e la limpidezza del gioco. Non rompeva sopraccigli e nasi con gomitate assassine. Ricordo la falcata possente per il campo ma anche il gesto lungo, da gru aggraziata, con cui domava la gamba per portare il piede a colpire la palla che arrivava a mezz’altezza. Ricordo il suo gol contro il Liverpool, quello che completò l’incredibile rimonta di San Siro, dall’1-3 al 3-0, che portò alla vittoria in finale contro il Benfica.
L’ho rivisto in questi giorni nelle foto d’epoca. Immenso e perfino statuario senza tracce di culturismo e tatuaggi vari. Sorridente, solare, sullo sfondo delle camicie bianche, l’unico tipo di camicie indossato allora dal popolo degli stadi quando c’era la bella stagione. Un soffio di malinconia per i tempi. La rabbia di vedere andar via così un presidente, un dirigente del calcio, che avrebbe aiutato il nostro sport più infingardo a uscire da questa palude infinita.
Nando
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