Il caso del bar Taveggia. Se l’anima di Milano se ne va

(Il Giorno, 26 settembre 2006) – C’è qualcosa che non quadra. Nella lunga storia dei negozi-simbolo che a Milano, da un po’ di anni in qua, devono chiudere i battenti sotto il peso di affitti insostenibili, qualcosa non torna. Perché non si può continuare a dire che Milano deve ritrovare un’anima, che la città degli anni sessanta ce l’aveva e quella degli anni ottanta pure, mentre oggi siamo costretti a vagheggiare di diventare “come Barcellona” o “come Berlino”; non si può recitare questa nobile giaculatoria e poi tirare una bella croce su un simbolo via l’altro di quella che è stata (e in parte è ancora) la Milano con l’anima. Con indifferenza, con rassegnazione.
La vicenda di Taveggia, il celebre bar all’angolo tra via Visconti di Modrone e via Battisti, che annuncia anch’esso di dovere chiudere schiantato dal livello degli affitti, si innesta su una lunga teoria di casi, fatta di locali di ritrovo, di librerie storiche, di negozi celebrati dalla stessa iconografia cinematografica. Luoghi che hanno segnato la crescita della città, i suoi momenti alti, la formazione delle sue classi dirigenti o anche l’immaginario e le abitudini  popolari. La vicenda potrebbe però finalmente diventare l’evento spartiacque.

Quello in cui la pubblica amministrazione dimostra un superiore interesse alla fisiologia della città, al suo repertorio pregiato, alla varietà e qualità della sua configurazione commerciale. Intendiamoci, un negozio storico può anche chiudere. Ma perché finiscono le vocazioni di una dinastia commerciale, o perché la dinastia si esaurisce. Non perché la rendita immobiliare fa partire la sua logica inesorabile. Fuori uno, fuori l’altro, fuori l’altro ancora. La città ha interesse a non farsi travolgere nel suo tessuto produttivo da questa corsa all’oro. Fra l’altro se spingessimo la corsa fino alle sue ultime conseguenze finiremmo per mettere i negozi, ossia le nostre strade, il nostro vissuto di socialità cittadino, nelle mani di chi ha molti e molti soldi, fatti velocemente e in attività facilmente immaginabili. Davvero questo vogliamo? Occorre piuttosto una visione responsabile dell’amministrazione. Si intervenga dunque, usando tutti gli strumenti a disposizione. Per esempio vincolando la destinazione del locale (stessa merceologia) e definendo regole chiare (pregresso, prestigioso esercizio della attività) per riassegnare la relativa licenza, così da calmierare le frenesie speculative . Oppure aiutando l’esercente con opportune garanzie, per metterlo in grado di acquistare il locale a prezzi di mercato. Si tratta di proposte migliorabili e solo esemplificative di un percorso. Che è di intervento attivo. Non di resa, travestita da filosofia liberista. Quando una città ha un’anima (o ha bisogno di ritrovarla) non si arrende a cedere come niente ogni singolo pezzetto della sua identità. Piuttosto lo difende.

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