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C’è un solo Gigi Meroni
(Guerin sportivo, 10 ottobre 2006) – Se mi chiedono, e me lo chiedono spesso, chi è il Meroni dei nostri giorni, rispondo che non c’è. E mica perché non ci sia nel calcio, perfino nel calcio satrapo e malandrino di oggi, un attaccante di genio, un artista. O un calciatore generoso. O un campione anticonformista. Il fatto è che la storia di Gigi Meroni è irripetibile. E Gigi Meroni è la sua storia. Bella e malinconica. Struggente e affascinante. Incorniciata in anni a loro volta irripetibili.
C’è sullo sfondo l’Italia dei campi senza porte in cui giocavano ragazzi di nome Tarcisio e Giacinto, Paride e Giobatta. Che sapeva di campagna. Che viveva con trepida gioia, con emozione e qualche volta con sgomento la sua più grande trasformazione antropologica. Che sposava la povertà con l’amore per la cultura. Il pane e
Gigi era nato in riva al lago, nella centrale via Milano, da una famiglia sobria e timorata di Dio. E aveva imparato a giocare nel cortiletto di casa, tirando la palla contro la porta di una bottega artigiana. Poi era diventato sempre più simile a un calciatore vero giocando all’oratorio di San Bartolomeo. Niente stages per pulcini, insomma. O scuole per futuri campioni aperte da campioni del passato. Più ci penso e più vedo trascritto nella sua storia, nelle sue privazioni dell’infanzia come nelle sue fortune, un mondo che non tornerà. E che ha prodotto i suoi eroi. Una volta per sempre. Ciascuno con le sue caratteristiche, le sue leggende, i suoi profumi letterari, le sue aure sentimentali.
Si chiamava Cristiana, la ragazza che aveva fatto innamorare Gigi, che lo aveva fatto impazzire fino a portarlo in chiesa a scrutare con ansia il suo matrimonio con un altro, nella segreta speranza che lei -come negli spot pubblicitari di oggi- all’ultimo momento piantasse tutti in asso per scappare con lui. Cosa che lei effettivamente fece, ma dopo qualche mese. Cristiana si chiamava, dunque. Ma non faceva né la fotomodella, né la velina, né era figlia di un ricco imprenditore. Faceva la ragazza del luna park, al bancone del tiro a segno. Figlia a sua volta di un’altra ragazza del luna park. La bella delle belle, la chiamavano. E la sua fama non si era sprigionata in un pugno di settimane da un video serale o domenicale. Ma era volata negli anni tra Genova e Milano nelle memorie ammirate dei giovanotti che gareggiavano a chi sparava meglio, dei militari in libera uscita, dei calciatori più giovani in arrivo dalla provincia. Compagna di Gigi quando il divorzio ancora era peccato, anzi quando l’adulterio era reato da codice penale. Davvero: chi potrebbe essere oggi come Gigi Meroni, fuori da quegli anni?
Chi potrebbe esserlo, fuori dagli anni magici dei Beatles, quando un cenno di capelli in più sulla fronte o sulla nuca era devianza, disordine o, nel più benevolo dei giudizi, stravaganza? Quando i capelli lunghi provocavano irritazione e apprensione quasi quanto le basette giacobine nel regno di Ferdinando di Borbone? Gigi li portava lunghi nel più conservatore dei mondi, quello del calcio; dove il giocatore non poteva avere opinioni e vigevano regole gerarchiche di ferro. E li portava lunghi, anche con tanto di barba, non per stupire, ma per un naturale istinto di libertà. L’istinto di chi era artista sul campo ma anche nella sua mansarda proibita, dove oltre a proteggere con gelosia la sua vita con Cristiana dipingeva (e proteggeva con altrettanta gelosia) le sue tele, in attesa di lasciare il calcio e diventare pittore.
Non c’è nessuno e forse non ci sarà nessuno come Gigi Meroni. Onore al Torino che seppe farne una bandiera, a Nereo Rocco il tradizionalista che seppe amarlo come un pupillo. Senza quella maglia non sarebbe rimasto nella nostra memoria l’immagine dolce e malinconica, geniale e sfortunata, di una meravigliosa farfalla granata.
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