Mecciare. San Calvino salvaci tu

Confessione di un cittadino al di sotto di ogni sospetto: ho fatto un’esperienza sconvolgente. Ho sentito dire dall’autorevole esponente di una grande azienda avanzata il termine “mecciare”. In sede ufficiale. Due volte, mica una sola. In cinque minuti, roba da infarto. Gli altri attorno, anch’essi uomini e donne di cultura (o con titolo di studio elevato, mettiamola così), annuivano. Non si torcevano le budella, non rabbrividivano, non davano segni, neanche impercettibili, di sconcerto. Mecciare. Per dire “combinare”, “combaciare”, giustapporsi”, “incontrare”. Dall’inglese “match”. Così il colonialismo culturale e linguistico galoppa nelle nostre stanze proprio mentre discutiamo di come difendere l’identità dei nostri prodotti e la competitività del paese, o mentre deploriamo l’abbassamento culturale delle nuove generazioni. Mentre esaltiamo la necessità che i giovani parlino l’inglese. Meglio: sappiano l’inglese. Il guaio è che per sapere e capire davvero un’altra lingua bisogna prima di tutto conoscere la propria (per leggere i classici bisogna avere letto prima molto bene un classico). Sentirla con naturalezza. Sapere istintivamente che stepbaistep non è più cosmpopolita di gradualmente. Insomma: non ci si può predisporre allo scambio culturale dei decenni futuri in questo modo. Faremmo il bis dei nostri emigrati di cento anni fa a Brooklyn. Che inventarono certo un’altra lingua. Solo che quella lingua non aveva né sangue né senso e perciò era destinata a morire. Calvino parlò della peste del linguaggio, termine –questo sì- efficacissimo per indicare l’aspetto perverso della contaminazione culturale e della cultura di massa. Moretti diceva invece che chi parla male pensa male. Mi schiero diplomaticamente con tutti e due. In fondo si possono mecciare.

 

Leave a Reply

Next ArticleGita scolastica quanto mi costi