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Bruno Lauzi. Amarcord
Anch’io saluto il piccolo, grande Bruno Lauzi. Lo avevamo capito in maggio, al festival di Mantova, quanto fosse malato. Quando, alla serata inaugurale dedicata a Umberto Bindi, lo vedemmo arrivare sul palco irriconoscibile. L’effetto chemio gli aveva rubato la riccia capigliatura bianca. Avanzava appoggiato a un bastone. Tutti ci chiedemmo chi fosse. Fu la sua voce a dircelo. E tutti capimmo d’istante di trovarci di fronte a un momento che aveva una sua grandiosità, specie quando prese a cantare (stupendamente) la sua romanza agitando il bastone verso l’alto (non per nulla gli dedicai un post a fine maggio, rivedetelo). Ora non c’è più. Un poeta in meno. Poeta non solo per le canzoni, belle, intelligenti e malinconiche. Ma anche per i suoi due libretti di poesie, arguti, sognatori e cinici al tempo stesso, che si era pubblicato praticamente in proprio. Se ne portò materialmente dietro alcune decine di copie per farle conoscere al primo festival mantovano, quello nato in opposizione al Sanremo di Tony Renis. Fu un grande gesto, il suo, quella volta. Il festival era stato ovviamente bollato come “di sinistra”, “politicizzato”, quando era pura rivolta civile contro il degrado della musica. Bruno, che era di idee vagamente di destra, venne lo stesso. Per amicizia verso Velia Mantegazza, la nostra regista. Ma anche perché pensava di avere delle cose da dire. E le disse con una capacità di coinvolgimento meravigliosa. Memorabile fu il modo in cui sulla scena prese in giro il suo morbo di Parkinson. Cantando e parlando, accompagnato da un chitarrista perché lui la chitarra, la sua chitarra, non poteva più usarla.
Lo conobbi nel ’64 che aveva 27 anni per uno di quei casi che solo la vita normale sa creare. Faceva il militare e io ero figlio di militare, allora di stanza a Torino. D’estate andammo a far vacanza quindici giorni in un centro di Bressanone, riservato alle famiglie degli ufficiali. E lui, da buon soldato semplice, era stato adibito ad allietare le nostre serate. Cantava accompagnato da alcuni musicisti anche loro di leva, tra cui spiccava un trombettista (Sasà, si chiamava) che per noi ragazzini divenne subito più celebre di lui per la tresca che aveva allacciato con una signora. Mi accorsi qualche anno dopo quanto avessi perso a non dedicargli più tempo, per parlare con lui delle sue idee sulla vita e sulla musica. Finché a Mantova, quarant’anni dopo (!), ho cercato di rimediare cenando a notte tarda accanto a lui o andandolo a sentire nei suoi colloqui mattutini con il pubblico. Non dirò il solito “ti sia lieve” eccetera. Hai fermato il Parkinson, Bruno. E in qualche modo… ritornerai.
admin
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