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Le madri. E le nostre epoche
Giornata di visita alla Libera Università di Castellanza, provincia di Varese. Obiettivo immediato: continuare l’esplorazione del polo lombardo per vedere come rimodellare i rapporti tra università, ricerca e impresa. Obiettivo sullo sfondo: più soldi alle università, più impegno (e coinvolgimento) della piccola e media impresa nella ricerca, più opportunità per nuovi ricercatori. Per università pubbliche e per università private. L’università di Castellanza è di dimensioni contenute. Ma mi ha fatto un’ottima impressione. E’ un vecchio, immenso cotonificio Cantoni ristrutturato, proprio sulle rive dell’Olona. Ci sono 400 posti per ospitare gli studenti che vengono da fuori. Mi sembra una struttura agile, capace di cambiamenti anche veloci. Di innovare con decisione. Il rettore è Gianfranco Rebora, economista d’azienda con il quale ci eravamo conosciuti negli anni settanta quando cercavamo di offrire una sponda universitaria agli operai dell’Innocenti mandati a casa. In un anno finiva la storia di una delle più grandi fabbriche di automobili. Sembra di parlare di archeologia. Cinquemila operai alla Cantoni. Quattromila alla Innocenti.
Mi sembra a volte di parlare di archeologia anche mentre scrivo e rifinisco i capitoli del mio prossimo libro. Si chiamerà “Le ribelli”. Racconta la storia delle donne che hanno sfidato la mafia per amore (materno e fraterno, soprattutto).
Quando riprendo in mano la storia della madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista socialista ucciso nel ’55, mi imbatto in una società che sembra lontana anni luce. E anche quando mi faccio scivolare nella mente il film immaginario della vita della madre di Peppino Impastato, vedo cose antiche, antropologie scomparse. Poi però ritrovo un’attualità stupefacente in tutto. Respiro la continuità. In fondo Giovanni Leone e Sandro Pertini, che si schierarono sulle parti opposte della barricata, difendendo il primo gli assassini di Carnevale e il secondo la madre di Carnevale, sono storia recente. E poi, tutto sommato, la prima madre, Francesca, morì nel ’92, la seconda, Felicia, nel 2004. Le storie delle stesse persone si snodano dentro epoche diverse e noi perdiamo il senso di questa verità.
Anche la mia piccola, di storia, si snoda per epoche diverse. A ogni compleanno mi sorprendo, da un po’ di anni, a non pensare a me, al punto della vita a cui sono arrivato, ai progetti che vorrei assolutamente realizzare, a dove andrò a stare quando e se smetterò di lavorare in qualsiasi modo (in realtà mi rivedo vecchio a insegnare a un gruppo di ragazzi a fare un giornale, un “Società civile” più bello, chissà come si faranno allora i giornali…). Penso sempre, invece, a mia madre, alla ragazza che mi mise al mondo. A come poteva essere quel giorno. Aveva 25 anni. E io ero il secondo figlio. Penso che era sola, mio padre era a Corleone a cercare gli assassini di Placido Rizzotto. Archeologia, ci han fatto un film (un bel film, di Pasquale Scimeca). Penso che ha speso la sua giovinezza per allevarmi e farmi crescere in condizioni che non erano facili affatto, segnando su un quaderno ogni lira che veniva spesa in casa. Certo, come miliardi di madri. Ma è proprio questo il punto. Che questo miracolo, questo amore, lo viviamo veramente solo dopo. Epoche dopo. Come se le epoche ce lo disvelassero. Torno indietro e a ogni mio compleanno la vedo più giovane. Mia figlia ha quasi la sua età e mi sembra una ragazzina. E si chiama come lei. Le sovrappongo nella tenerezza. Ma sono epoche diverse della mia vita. C’è dentro un abisso che vivo (viviamo) con troppa incoscienza.Nando
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