Simone Veil. Il bello del francese

Accidenti, devo imparare il francese. Alle medie mi mandarono nella sezione di spagnolo, perché era la sezione più severa del Parini di Milano. Fu un’esperienza bellissima. Lo spagnolo è dolce e musicale e si accompagna a una letteratura semplicemente immensa, specie quella latino-americana. Al ginnasio poi a fare spagnolo eravamo in quattro o cinque e ciò aiutò a saldare, in quell’aula speciale, una più intensa frequentazione adolescenziale tra i rari allievi oltre che a fare sbocciare il tradizionale primo amore verso una compagna di classe. All’università ho fatto spagnolo e inglese. Nel frattempo il francese perdeva di importanza, per cui non ho mai avuto grandi stimoli a impararlo. Ma oggi (lo so, ce ne ho messo…) capisco che non posso andare più avanti così. Me l’ero già detto durante l’ultimo viaggio a Parigi per il trattato sull’energia.

Oggi me lo dico dieci volte di più. Che è successo? E’ successo che stamattina sono andato all’università di Cassino per intervenire alla cerimonia di conferimento della laurea ad honorem a Simone Veil. Una scelta che fa onore a tutto il nostro sistema universitario; e che contrasta con la tendenza (a cui vogliamo mettere un freno) di rilasciare lauree ad honorem come noccioline, elargendole a personaggi che hanno o il merito della notorietà (che per un giorno viene trasferita anche sul rettore di turno) o quello di avere finanziato l’università medesima. Simone Veil è una delle più grandi donne dell’Europa del dopoguerra. Testimone pacata e profondissima degli orrori di Auschwitz. Giurista e magistrato. Espressione della grande costruzione europea, presidente del primo parlamento europeo eletto a suffragio popolare. Esponente del movimento di liberazione della donna, autrice della legge francese sull’interruzione volontaria della gravidanza. E tante altre cose. Ammiro questa donna da anni. Be’, ho chiuso la cerimonia spiegando perché. E credo di averlo saputo fare. Ma poi, di fronte al suo viso radioso e che le assegna assai meno dei suoi quasi ottant’anni, sono rimasto come un baccalà. Avrei voluto parlare con lei, ascoltare qualche sua riflessione (non dico le memorie), e invece ho detto qualche piccola frase, passata per la traduzione di un garbato signore che le stava accanto. E basta. Sicché, dopo che ci siamo concessi reciproci sorrisi, ho preferito allontanarmi malinconicamente. Ma si può buttar via un’occasione del genere? Assurdo, semplicemente assurdo. Le lingue, le lingue. Riflessioni a gogo e scontate (ma vere!) sulle trecento parole di don Milani, sugli stranieri in Italia, e il fiero proposito che ora si cambia. Chi ha da consigliare metodi o manuali felicemente sperimentati (visto che non posso andarmene un mese a Parigi per la classica immersione full time), sia gentile, consigli.

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