Atenei autoreferenziali

(Europa, 16 dicembre 2006) – Le università italiane come altrettanti villaggi gallici di Asterix, le porte in legno e menhir con su scritto “Vietato l’ingresso ai romani”? La forma scelta dai rettori italiani per esprimere la loro protesta contro i tagli imposti dalla legge Bersani sui consumi intermedi non appare particolarmente felice. E dà voce a uno spirito “pubblico” che poco si addice a chi riveste un ruolo di tanta responsabilità, sia verso il sistema delle relazioni istituzionali sia verso la cultura civile delle nuove generazioni. La protesta annunciata tradisce cioè due fatti incontrovertibili. Il primo: l’azione del governo non è ancora all’altezza delle attese suscitate dalle promesse elettorali ma, soprattutto, dell’idea di sviluppo economico e culturale ribadita in ogni pubblico confronto. Il secondo: il mondo accademico massaggia al suo interno qualche tentazione autonomistica e autoreferenziale che non ha molto a che fare con la sacralità dell’autonomia dell’insegnamento e del sapere. Sarebbe sciocco per tutti non cogliere la qualità di entrambi i problemi messi in campo dalla protesta.

Perché essi hanno implicazioni serie per il clima in cui si dispiegherà l’azione riformatrice del governo. Da un lato infatti è chiaro che va ricostituito un rapporto di fiducia tra quest’ultimo e il mondo dell’università (e della ricerca); il quale ha visto nei tagli una cura da cavallo imposta senza distinzioni a chi è efficiente e a chi spreca, a chi dà l’anima per mantenere o conquistare posizioni nella competizione internazionale  e a chi dorme sui soldi pubblici in atenei ai bordi dei grandi circuiti scientifici. Dall’altro lato è evidente che un’università autoreferenziale (perché tale è quella che non coglie la forza devastante del messaggio che manda con i propri gesti) non è propriamente il punto di partenza ideale per costruire un nuovo sistema dell’alta formazione, di cui il paese ha bisogno come il pane.

Perciò sarà bene che nel prossimo futuro si intensifichi il rapporto di scambio e di consultazione con i rettori e con il corpo docente dei nostri atenei, comprese le sue più giovani leve (che non sono sempre per la “stabilizzazione dei precari” indipendentemente dai meriti). E che si sviluppi il confronto con il mondo degli studenti, vero, grande assente -e non per caso, aggiungo- di questo dibattito sulla Finanziaria. Perché, anche se le apparenze sono di segno contrario, l’università italiana è percorsa da un ricchissimo dibattito che guarda alle potenzialità di un cambiamento di sistema. Che guarda al merito e si interroga su come possa realizzarsi la migliore competizione all’interno di un sistema pubblico. Che chiede nuovi criteri di reclutamento, dopo avere sperimentato sia i concorsi nazionali sia i concorsi locali. Che guarda a nuove, più ampie modalità di internazionalizzazione dei propri docenti e dei propri studenti. Che ricerca forme di sostegno del diritto allo studio che non premino i figli degli evasori o i futuri fuoricorso, e aiuti davvero e non con cifre irrisorie i “bisognosi e meritevoli”. Che chiede all’autorità politica di cambiare il modello di governance, farraginoso e irresponsabile, partendo dal principio che l’università da sola non lo farà mai, come è emerso al seminario di novembre organizzato dalla Margherita a Bologna.

E’ il caso dunque che si parli a questa università che avanza verso il futuro. Che le si dia fiducia e si cerchi la sua fiducia. Cercando di sospingere sui nuovi terreni anche quell’ università (probabilmente minoritaria ma resistente) che guarda solo al proprio particolare, forte del celebre patto tra notabilato accademico e notabilato politico locale; ma evitando al tempo stesso di farne la pietra angolare per la verifica delle proprie buone ragioni. Bisogna dirlo con nettezza. L’università dei prossimi anni non sarà fatta solo di Finanziarie. Ma sarà fatta anche e soprattutto di regole e di sfide culturali. Alcune, quelle sul rigore e sulla serietà per esempio, sono già state lanciate.  Peccato che in molti tendano a dimenticarle.

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