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Giornalista in esilio
Ore 1,25 della notte tra venerdì e sabato. Torno ora da una festa dove era davvero difficile capire se fosse più forte la malinconia o l’orgoglio. Fatta all’Osteria del Treno di Milano, zona stazione centrale. L’aveva organizzata Fabio Zanchi, giornalista di Repubblica. Anzi, ex giornalista di Repubblica, dove è sbarcato dall’Unità più di vent’anni fa. Sì, Fabio, firma storica della Repubblica di Milano, lascia il suo giornale. E va a lavorare per la Provincia, con Penati e con l’assessore alla cultura Daniela Benelli. Si occuperà dei cosiddetti grandi eventi.
Soldi? No, la sua è stata una scelta dolorosa, e stasera lo si è capito ancora di più. Quante cose avrebbe voluto dire nei pochi minuti che ha avuto il microfono in mano…Messo all’angolo nella sua redazione, umiliato in mansioni di secondo piano senza troppe preoccupazioni di offenderne l’intelligenza. Perché nei giornali (come in politica, come ovunque) può accadere anche questo: che chi ha dato loro struttura e forza e credibilità venga messo in soffitta, pur dicendogli che avrà più responsabilità di prima. Per un ghiribizzo della mente, per un’alzata d’ingegno. C’erano intorno a Fabio tanti amici e un nugolo dei redattori che hanno fatto la forza della Repubblica di Milano; una quindicina, mi pare. In ciascuno, per quanto fosse intinta nel mondano, si notava la tristezza, la malinconia profonda del momento. Uno di loro, in fondo, era costretto a cambiare mestiere, emarginato dopo il lungo e onorato servizio che in genere dà diritto (almeno in Italia) a un cavalierato del lavoro. Mi sono messo in un angolo da solo, con un bicchiere di bianco leggero. E ho cercato di dare un senso a quanto mi stava accadendo intorno. Ho pensato che tutto questo succedeva mentre era in corso il più duro sciopero dei giornalisti che io ricordi. E che perciò l’abbandono del vecchio capocronista aveva in sé qualcosa di simbolico. Reso ancor più inquietante dalla notizia che nessuno della Direzione di Repubblica gli avesse fatto una telefonata per chiedergli di ripensarci. O per fargli i migliori auguri per questo futuro che inizia a cinquantatre anni. Niente. Niente di niente.
Io so di Fabio che è stato ed è tra gli organizzatori (il più indispensabile) del Mantova musica festival. So che della sua famiglia comunista mantovana, dei suoi genitori gentili e tutti d’un pezzo, porta innato il senso dell’essere di sinistra, che coltiva in ognuna delle varianti riformiste. Che perciò è rimasto amico dei vecchi “compagni” finiti in Cl come ai bordi di Forza Italia, ma soprattutto è rimasto legato a chi nei Ds rappresenta la voglia di riformismo, che lui intende in modo pragmatico e originale. So anche che quando gli ambienti del riformismo meneghino (in odor di Tangentopoli) lo mandarono -attraverso il suo giornale- a fare un pezzo contro di me (sui giovani redattori di Società civile che reclamavano da me un comitato di redazione), mi stette a sentire con gli occhi azzurri fissi sulle mie parole. Poi si convinse che quel pezzo sarebbe stata una “porcata” e, senza dirmi nulla, decise di non farlo. Insomma, uno con la spina dorsale. Che è venuta fuori anche stasera. Tra parole tristi e orgogliose, un po’ di musica, gli applausi degli amici che hanno voluto esserci. Che Natale, ragazzi. Con un giornalismo ridotto in edicola a Giornale e Libero e che per qualche fisima incomprensibile si priva dei suoi pezzi pregiati sugli altri quotidiani. Dai, Fabio. Si mormora che tu abbia un cattivo carattere (e sottoscrivo). Ma a volte il cattivo carattere serve proprio per non acquietarsi davanti alle ingiustizie. Per ribellarsi. Per ricominciare una nuova vita a cinquanta anni e passa. Auguri, Cotechino!
Nando
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