L’eterna ragazza di Lidia Ravera e le sue recensioni

“Eterna ragazza” è il titolo dell’ultimo libro di Lidia Ravera. Un libro di 400 pagine. Che finora, proprio a causa della mole, non avevo potuto leggere. Benché pubblicato in settembre. E benché sia amico (e molto) dell’autrice. Quattrocento pagine vanno bene per chi abbia due giorni pieni da dedicare alla lettura di un solo libro. Ma chi legge in treno o in aereo o nei ritagli di tempo non può andare oltre le duecento. Non può, voglio dire, se vuole distillare un libro e non solo giungere alla fine per dire “l’ho letto”, dopo averlo sminuzzato e svigorito in dieci o quindici puntate una lontana dall’altra. Fatto sta che ieri in aereo mi è capitato di leggere la recensione che il “Corriere” ha fatto dell’”Eterna ragazza” e mi è scattata la voglia di usare questi giorni (magari non interi) per leggerlo. Forse perché la recensione era entusiasta e si capisce, visto che la Rcs deve parlare bene di se stessa? No, per il contrario. Perché mi ha infastidito quel vezzo di fare recensioni senza entrare dentro il libro, senza misurarsi con chi ha pensato e scritto e raccontato. Tanto per cominciare il titolo faceva perno su “Porci con le ali”, il libro che rese celebre la Ravera trent’anni fa, e che con questo libro nulla c’entra ma che chiunque voglia parlare della Ravera senza averne letto i romanzi di trent’anni tira puntualmente in ballo. Facendola arrabbiare (e giustamente) molto. Dopodiché l’articolo era costruito in modo da arrivare, e te pareva, alla figura della donna tardo-sessantottina. Roba rifritta. 

Perciò ieri sera ho iniziato, quasi per reazione solidale, a leggere il libro. Sono arrivato alla metà. Giudizio: l’”Eterna ragazza” è proprio un’altra cosa. Come sospettavo. Né porci, né ali, né sessantotto. E’ invece un romanzo che affronta con intelligenza e una sensibilità raffinatissima il tema dell’amore, in tutte le sue pieghe. Ce lo ritrovi nell’infinita gamma dei gesti, dei pensieri, dei retropensieri, delle ansie, delle parole, degli slanci, dei dolori, delle illusioni, delle autocensure che esso evoca e di cui si nutre; e in cui si umilia e si sublima. Amore tra generazioni, non sempre genitori e figli, ma anche mariti e mogli. E’ un romanzo sulla famiglia, sulle sue crisi e sulle sue asperità terribili o sulle sue dolcezze. Sul tempo, su questo “contenitore vuoto”, come lo chiama Lidia, e che sta a noi riempire. Il tempo. Che gioca a sfavore delle donne, che perdono la loro bellezza; e a favore degli uomini, che conquistano denaro e potere. Se si vuole sta semmai qui, non in “porci con le ali”, il vero, drammatico tema che attraversa i romanzi di Lidia. Il fascino e il rimpianto della giovinezza, che poi è il fascino della bellezza, che non si può conquistare né comprare. E’ anche un libro sulla memoria, che in Lidia è soprattutto memoria di dolori più che memoria di gioie. E forse in questo siamo diversi. Ma se dovessi mai tenere una lezione di sociologia partendo da questo libro, la centrerei sui ruoli; sui ruoli fissi e invece così labili che la società ci disegna addosso. Ruolo: l’insieme delle aspettative sociali che convergono su un individuo, recita il Dizionario di sociologia. Ma poi c’è l’interpretazione del ruolo. Poi c’è la negoziazione del ruolo. Poi c’è la devianza dal ruolo che cambia il ruolo stesso. Ruoli in amore, nella professione, nella comunità. Ruolo davanti al proprio “io”, il più difficile da vincere. Sono i ruoli che ci impediscono di misurarci (se non per competenza di ruolo…) con quella che Lidia chiama “la schiuma nera della società”, il male che fuoriesce dalla normalità, il delitto di chi non ha attitudini criminali. Ruoli che vengono rotti dall’amore. Questo c’è, per me, nel libro. Che fa pensare molto e altrettanto risucchia nella sua trama. Nella quale, lo credereste?, campeggia la bellezza estasiante di Stromboli, l’isola del mio cuore. Porci con le ali?…Ma rob de matt…

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