Sciascia, perché non mi pento

(l’Unità, 4 gennaio 2007) – Chiedere scusa a Sciascia per avere criticato il suo celebre
articolo contro i professionisti dell’antimafia di vent’anni fa? Recitare il
mea culpa come chie­de Pierluigi Battista sul «Corrie­re» dell’altro ieri? In
questi casi è sempre bene non rispondere di getto. E rimettere in fila tutti i
da­ti di realtà conosciuti. E poi pen­sarci. E poi pensarci ancora. Per evitare
di reiterare un gioco delle parti. L’ho fatto. E sono giunto alla conclusione
che non ci sia da chiedere scusa di nulla. Non per ostinazione. Ma per un ricor­do
che ho ben vivo nella mente. Incancellabile. Di quelli che se­gnano il tuo modo
di ragionare (e di far memoria) per tutta la vi­ta
.

Partirò dunque da quella sera del 25 giugno del ’92. Biblioteca co­munale
di Palermo. Dibattito or­ganizzato dalla rivista «Micromega» sullo stato della
lotta alla ma­fia dopo la strage di Capaci, in cui era stato ucciso Giovanni
Falco­ne. A un certo punto arrivò Paolo Borsellino. In ritardo perché si era
dimenticato dell’impegno. Accol­to da un applauso lunghissimo.
Prese quasi
subito la parola, aspi­rando una sigaretta dopo l’altra. Misurando le parole,
ma usandole con una forza
inconsueta. Ero se­duto alla sua destra, credo che
tra noi ci fossero due oratori, ce n’era­no sette stipati su una predella che
normalmente non avrebbe contenuto più di quattro sedie. Lo guardavo come
attratto da una ca­lamita (tutti lo guardavano
così). Man mano che parlava
tutti ca­pimmo che Borsellino stava conse­gnando ai presenti un documen­to
orale a futura memoria. Parlò del suo amico ucciso, parlò delle indagini, dei
tempi veloci che egli stesso doveva darsi. Parlò del giu­dice che aveva tradito
Falcone nel Csm, riservandogli un termine («giuda») che giunse sui presenti
come una staffilata; insieme con l’immagine, nitidissima per tutti, del
magistrato palermitano al qua­le si riferiva. Poi fece la ricostruzio­ne
storica della campagna volta a
 distruggere e delegittimare i magi­strati
palermitani impegnati sulla trincea della lotta alla mafia. A un certo punto
fece una pausa e dis­se: «Tutto incominciò con quell’articolo sui
professionisti dell’anti­mafia». Lo disse con un tono sprezzante e amareggiato,
esisto­no le registrazioni di quella serata. Fu l’ultimo intervento pubblico di
Borsellino. Il testamento morale di un giudice che, con il lucido istinto
dell’animale braccato, sen­tiva che avrebbe seguito la stessa sorte dell’amico
e che perciò pesò con quella gravità le sue parole. E che comunicò questo suo
presa­gio anche alle mille persone pre­senti. Che infatti vollero fargli sen­tire
da vivo l’applauso che Falco­ne non aveva potuto sentire. Do­dici,
interminabili m
inuti di ap­plausi. In piedi, con le lacrime agli occhi e la
pelle d’oca che non se ne andava
.

Ripartiamo da lì: «Tutto incomin­ciò con quell’articolo sui professio­nisti
dell’antimafia». Un articolo spartiacque, dunque. D’altronde chi lo aveva
criticato cinque anni prima aveva ben capito quale ne sarebbe stata la forza
dirompente. Aveva ben intuito l’effetto che avrebbe prodotto, nel pieno di una
carneficina e nel preciso mo­mento in cui si aprivano spazi isti­tuzionali di
una nuova coscienza e responsabilità antimafiosa, quell’attacco a chi si stava
impe­gnando su una frontiera rischiosa e cruciale come quella siciliana. Tanto
più se l’attacco veniva da
uno scrittore che con i suoi ro­manzi aveva
insegnato a leggere la mafia a un paio di generazioni e che quindi si sarebbe
prestato a meraviglia per essere usato contro il nascente movimento antimafia.
Il che puntualmente accadde. Co­me già era accaduto e come anco­ra sarebbe
accaduto in quegli an­ni. Nemmeno per il «Corriere», fra l’altro,
quell’intervento fu un episodio. Oltre al modo in cui ve­nivano trattati
Falcone e Borselli­no (per avere difeso i quali dagli ar­ticoli di via
Solferino dovetti subi­re due processi per reati d’op
inio­ne), brillò in quei
giorni un edito­riale non firmato (e dunque riconducibile alla direzione di
allora, quella di Piero Ostellino) nel qua­le si affermava che accanto alla
mafia tradizionale si stava affer­mando «un meccanismo di clien­tele e
parentele che
… rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno
contrario e in nome di nobilissimi principi». Era la teoria della nuova, più
nobile ma­fia composta anche dai familiari delle vittime (le «parentele»)
!

Di tutto questo, nel lungo articolo di Pier Luigi Battista, non si
trova traccia. E in certa misura è comprensibile. Battista non era alla bi­blioteca
di Palermo quella sera e quindi tramanda la versione del Borsellino
pacificamente riconciliatosi con Sciascia. Battista non ha vissuto, per fortuna
sua, quegli anni nel fuoco dello scontro diret­to e quindi può condannare, im­peccabilmente,
il coordinamento antimafia di Palermo per avere, in un furente e improvvido
comuni­cato, messo Sciascia «ai margini della società civile» e averlo defini­to
un «quaquaraquà».
Chissà che si immagina che fosse quel coordi­namento
antimafia. Non sa che era fatto da studenti stanchi di ter­rore e lapidi e
complicità, da don­ne mai prima impegnate in politi­ca, da qualche poliziotto
voglioso di dare giustizia a un grappolo di colleghi assassinati. Gente sempli­ce,
non intellettuali, che per rab­bia, la rabbia del «tradimento», usò parole
assurde. Ma che difese le ragioni dell’antimafia con gene­rosità, e Dio sa
quanto fu difficile difenderle tra gli studenti dopo che l’auto della scorta di
Borselli­no ne uccise due davanti al liceo Meli. Si può restituire il contesto
storico di allora contrapponendo a Sciascia quel coordinamento au­dace e
smandrappato? Facendo l’elenco minimo di chi dissentì dallo scrittore siciliano
e indican­do in Sciascia l’anticonformista che dovette pagare il prezzo della
sua libertà, sostenuto solo
dai radi­cali (e dal «Corriere», si intende)?
Credo
che non si possa. Credo, anzitutto, che non si possa negare al lettore l’informazione
dirimente, poiché è da qui, dal racconto fede­le dei fatti, che inizia il
garanti­smo: ossia la frase con cui lo scrit­tore chiudeva quel suo celebre
arti­colo, e che ne rappresentava il succo (egli scrisse infatti per protesta­re
contro la nomina di Borsellino a procuratore capo a Marsala). Concludeva
sdegnato Sciascia: «I lettori comunque prendano atto che nulla vale più, in
Sicilia, per fa­re carriera nella magistratura, del prender parte a processi di
stam­po mafioso». La carriera di Borsel­lino, insomma. Era questo l’ogget­to
del fondo di Sciascia, che fra l’al­tro non conteneva mai l’espressio­ne
«professionisti dell’antimafia», che fu invece tutta farina del sac­co del
«Corriere» di allora. E nem­meno credo che si possa evitare di riandare agli
schieramenti veri di allora. Coordinamento antimafia, il cir­colo
«Società civile» di Milano e po­chi intellettuali (Stajano, Rodotà, Rositi,
oltre a Pansa) da un lato; tutti i partiti, tutti i sindacati, tutti i
direttori di giornale (Scalfari escluso) dall’altro, avvinti in un intreccio
surreale, che uni­va complicità aperte, omertà di partito, bisogno di una
legalità «ben tempera­ta», rispetto sacro per il maestro di pen­siero,
diffidenze verso i pool di magi­strati nati nei processi al terrorismo.
Al­tro
che «il vuoto» intorno a Sciascia, come afferma Battista. Pochi e con po­co
potere contro un intero sistema. Chi era anticonformista?

No, il problema non furono gli «sciasciani di borgata» (come dice
e disse Leoluca Orlando, comprensibilmente preoccupato di riconoscere la
grandez­za intellettuale dell’interlocutore). Il problema furono gli sciasciani
di palaz­zo, e che Palazzo. A loro, a chi diede lo­ro un aiuto insperato, è
difficile oggi chiedere scusa. Sia chiaro: viene ben da pensare ogni tanto,
vedendo certi esempi di retorica antimafiosa, che Sciascia avesse una qualche
ragione. Ma non vi è certo bisogno delle analisi di Sciascia per provare
fastidio per la retorica in generale. Il fatto è che nel caso
specifico (l’unico su cui sì può mi­surare il senso concreto della polemi­ca)
la «retorica» era quella che aveva legittimato la «carriera» di Borsellino.
Una
«carriera» che non doveva costitu­ire un precedente. E che infatti, grazie a
quella polemica, non fu un preceden­te per Giovanni Falcone, boicottato
strenuamente – con il contributo del «giuda» – nel Csm. Poi la carriera di
Borsellino, la sua celebre carriera, finì. Nel modo che sappiamo. E lui appena
prima di finirla disse in pubblico: «Tut­to è incominciato con quell’articolo
sui professionisti dell’antimafia». Non è che per caso qualcuno deve chiedere
scusa a Borsellino
?

Leave a Reply

Next ArticleApocalypto e gli sconsigli per gli acquisti