Il Policlinico di Roma e il pubblico impiego. Sentita filippica

Lo confesso. Seguo con grande interesse il dibattito sui dipendenti pubblici, essendo anch’io, in definitiva, un dipendente pubblico. Vuoi come sottosegretario, adesso; vuoi, per mestiere, come professore universitario (titolo che, significativamente, mi è stato revocato dal mio ministero all’atto di fornire alla presidenza del Consiglio i miei dati personali, giusto per dare un’idea…). Be’, mi scopro a dire con sempre più convinzione “Forza Ichino!”. Ichino, per chi non lo sapesse, è un gentile docente di diritto del lavoro che sul “Corriere” sta conducendo una battaglia per rompere corporativismi e inamovibilità che trionfano nel pubblico impiego. E che trova di fronte a sé solo i tradizionali “non se ne parla nemmeno” sindacali, rotti appena l’altro ieri da un’apertura del segretario della Cgil Guglielmo Epifani sulla mobilità “degli statali”. Intendiamoci. Avevo ventiquattro anni quando andai a lavorare in una merchant bank londinese; e mi bastò guardarmi intorno, specie nel pomeriggio, per stabilire che anche nel privato e nella esemplare Inghilterra non si ammazzavano certo di lavoro. Viceversa agli insegnanti di una scuola media (pubblica) dei Quartieri Spagnoli di Napoli ho dedicato un libro. Per pura ammirazione. Dunque non mi si facciano discorsi ideologici. Né di nord e di sud, né di pubblico e privato.

Il fatto è che chi lavora va premiato. E chi non fa nulla va punito. Soprattutto (ripeto: soprattutto) se di mezzo ci sono i soldi pubblici. La vicenda del Policlinico Umberto I di Roma (leggere l’Espresso, ancora una volta bravo Gatti!) grida vendetta al cielo. Io sono stufo di sentire l’alibi degli organici e dei fondi di fronte a situazioni così scandalose. Davvero nessuno vedeva o controllava? Nessuno si preoccupava? Nessuno chiamava le autorità competenti o ci portava le televisioni? Quali denunce vere sono state fatte? E i malati, dico io, chi li difende i malati, che sono poi l’unica ragione di esistenza degli ospedali? E la scuola, come la mettiamo con la scuola? Perché alcuni insegnanti devono portarsi addosso per anni il peso di un istituto e altri tirano a campare, tutti pagati uguale? Dice: ma poi chi decide come differenziarli, quali discrezionalità potrebbero scatenarsi? Che è un discorso identico, nella sostanza, a quello di chi sosteneva che i magistrati dovessero fare carriera solo per anzianità, se no sai gli arbìtri… Idem per le università, dove manca, specie sui baroni (ma vale anche per un po’ di ricercatori), qualsiasi controllo di presenza alle lezioni, agli esami e al ricevimento studenti.

Quanto ai ministeri e alle burocrazie…Dirò solo che mi sembrano assurde le pretese di fare quello che si crede “visto lo stipendio”. Fuori ci sono, da anni, giovani che farebbero i salti di gioia per avere quello stipendio. Che è basso o alto solo in relazione a quello che si fa.

La Befana è passata. E’ stata carina. La famiglia si è raccolta per festeggiare, parlare, guardarsi negli occhi ancora una volta. Ma poi leggi i giornali, magari ti stai facendo le tue esperienze sul campo in questi giorni, e allora senti che bisogna fare qualcosa, ognuno per quello che può. Anche se ti dicono che non cambierà mai. A partire dagli ospedali. E senza solfeggiare che “il problema è un altro” o “è più complesso”. Il problema è quello che è. E la causa prima è che nessuno paga. O meglio, a volte paga proprio chi fa il suo dovere per intero…

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