Le ribelli. La mafia, l’antimafia e la “cultura di riserva”


Intervista di Grazia Casagrande a Nando dalla Chiesa (
tratta da http://www.wuz.it)

Perché, per parlare di lotta alla mafia, raccontare la storia di sei donne?

È stato casuale, c’era la presentazione all’ultima Fiera del Libro di Torino del libro di Rita Borsellino (Nata il 19 luglio, Lo sguardo dolce dell’antimafia, edizioni Melampo), eravamo con Vincenzo Consolo e con Gian Carlo Caselli (la Borsellino non era potuta venire) e, mentre presentavamo il libro, Consolo fece riferimento a pagine molto belle di Le parole sono pietre di Carlo Levi, facendo un’associazione  tra Rita Borsellino e Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia che è sullo sfondo delle ultime pagine del libro di Levi. Ebbi come una folgorazione: quante donne ci sono state in Sicilia che si sono trovate dentro questa tragedia greca? Usammo proprio termine. Quante figure da tragedia greca ci sono state nella storia siciliana che hanno urlato contro il potere mafioso che uccideva, che si sono ribellate e hanno lanciato un urlo che giunge fino a noi, più forte del tempo? Mi sono detto: bisogna contarle… La scelta di scriverne mi è venuta proprio quel giorno.

Ribelli: a che cosa e a chi?

Ribelli prima che contro la mafia, contro il costume dominante che imponeva, e spesso ancora impone, alla donna di tacere di fronte alla violenza, di raccogliersi nel suo dolore privato, di non sembrare esagitata, sopra le righe, di sapere vivere in silenzio e compostamente il suo dolore. Naturalmente questo è un costume che tanto più pesa, quanto più ha potere chi richiede l’osservanza di questo ruolo: come la mafia. Un potere armato, totalitario, oppressivo, dotato di forti complicità politiche, che ha una sua cultura di cui spesso innerva l’opinione pubblica di intellettuali affermati. Ribellarsi alla violenza mafiosa significa ribellarsi a un costume e a un potere: è una prova di coraggio e di indipendenza che, così grande, credo sia stata richiesta, nella vicenda di questo paese, a non molte persone. Non tutte le donne ne sono state capaci, ma quelle che lo hanno fatto hanno contribuito, nel modo più duro, nel cammino di liberazione delle donne nella società italiana.


Molte di queste figure sono combattute tra la paura per il loro caro e il senso di giustizia. Alla fine prendono coscienza e accettano, anzi sostengono la battaglia del figlio o del fratello: è come se venissero condotte per mano dai loro cari alla vittoria sulla paura… Credo che, quando una persona viene amata davvero, vengono amati anche i suoi ideali: la madre di Carnevale diventa socialista grazie al figlio, eppure nelle elezioni del ’46 aveva votato per la Democrazia Cristiana. Era il voto che “mancava nel Paese” tra quelli che il figlio continuava a contare.
La madre di Impastato chiedeva al figlio di non esagerare, di non diventare un protagonista della lotta alla mafia a Cinisi, era andata anche a fare incetta di tutti i numeri del giornalino in cui Peppino aveva scritto che la “mafia era merda”…
C’è la paura, ma c’è poi, come nella madre di Carnevale o in quella di Impastato, e ancora di più nel caso della madre di Roberto Antiochia, c’è la voglia di stare vicino e di condividere degli ideali, è il rispetto per la persona amata che alla fine porta, con angoscia, ad accettarne le scelte, e soprattutto a sposarle in modo coraggiosissimo dopo che le paure si sono dimostrate fondate, cioè dopo la morte della persona cara. In quel momento la condivisione è massima è come se la donna assumesse in sé il dovere di due coraggi: quello di chi non c’è più e il proprio e questo dà una forza straordinaria alla loro azione.

Una di queste donna, una ragazza, ha sentito però a un certo punto che tutto era perso e ha scelto di morire perché non aveva più speranze. Questa forse è la figura più dolorosa.

Questa è una figura terribile, più che dolorosa.
Bisogna riflettere su questa vicenda: Rita Atria è una ragazza di 17 anni che ha appena imparato a capire che cosa sia la normalità, che cosa significhi vivere fuori da un contesto di mafia, che cosa voglia dire andare a una mostra, incontrare un ragazzo e non avere dietro né le gelosie né le voci né le minacce dei clan. La sua storia è la dimostrazione che quello richiesto non è un coraggio facile, ma che ha bisogno di essere rialimentato, di avere al fianco qualcuno: nel caso di Francesca Serio è il Partito Socialista che le dà questa forza, nel caso della madre di Impastato sono gli amici del figlio, non un partito ma un gruppo di giovani, anche se passa attraverso una solitudine formidabile; nel caso di Saveria Antiochia ci sono i movimenti antimafia degli anni Ottanta. Rita Atria non conosce queste cose, anche perché non viene da un posto dove ha potuto vedere e sperimentare queste nuove spinte: è passata direttamente dalla mafia al magistrato. La sua è una situazione di isolamento, non è cresciuta in un nuovo tessuto connettivo, ma sotto protezione e non ha altro riferimento che l’uomo di legge e quando glielo uccidono pensa di non avere più niente che la possa aiutare ad attraversare la seconda fase della sua vita e quindi si uccide.

Perché la scelta è caduta proprio su queste sei donne?

Credo che sia doveroso ricordare l’insieme di queste storie: le sei donne che vengono tratteggiate nel libro (più Rosaria Schifani e alcune altre che ho cercato di richiamare almeno per nome, dalla moglie di Libero Grassi, alla moglie del procuratore Costa o di Cesare Terranova o ancora Maria Falcone) sono molto diverse tra loro, ma in questi sei casi mi sembra che si sia condensata in forme differenti la maggiore durezza dell’impegno.

Con l’ultima delle storie del libro, quella di Rita Borsellino, ci troviamo alla presenza di una donna che è tuttora attiva sulla scena pubblica.

La sua è un’azione importante: non è la prima donna che giunge all’assemblea regionale siciliana, anche Rita Costa ci era arrivata, però la Borsellino non è un  semplice candidato indipendente in un partito: è stata candidata a governare la Sicilia, e questa mi sembra la grandiosa novità, candidata a governare il teatro della tragedia. La cosa continuerà ad avere degli effetti tra le donne siciliane che sanno che una di loro è stata candidata a governare. È stata sconfitta: sconfitta da una cultura gommosa e opportunista, che ha le sue viscere piantate nel passato. Tuttavia sconfitta, ma non schiacciata e portatrice di un messaggio, e di un nome, che per la storia della Sicilia e per la storia d’Italia vuol dire moltissimo.
Non credo che si tratti, come spesso succede, di una vicenda che non lascia traccia.

Rita Borsellino oggi è ancora molto attiva in Sicilia.

Si tratta di una persona che sta lì e continua a rappresentare un punto di riferimento. Dall’opposizione non potrà fare miracoli, ma quel nome in politica è entrato e darà un impulso anche a un’idea di istituzione differente, attraverso una figura femminile. E questo mi sembra importante. Non vedo nei partiti, non solo l’idea, ma nemmeno la possibilità di ricondurla a una dimensione di “normalità”: lei è in questo momento per la Sicilia la politica che si è opposta o che intende opporsi alla mafia e alla corruzione.

Il libro nelle prime pagine introduce il lettore alle origini e alle cause del potere mafioso. Tutto sembra iniziare con Portella della Ginestra.

Portella è un punto di svolta d’importanza pari a Piazza Fontana e mi sembra che anche il numero di morti sia lo stesso, almeno quello contato all’inizio “sul terreno”. Qualcosa che è già nato con l’arrivo degli americani in Sicilia nel ‘43 si raggruma in quelle scariche di mitragliatore sparate contro i contadini subito dopo la vittoria delle sinistre in Sicilia. È il piano che prevede che in Italia si possa intervenire in modo illegale se l’opposizione comunista o filosovietica dovesse affermarsi per via democratica. È la dottrina che viene realizzata in Portella della Ginestra, e in quel caso prende la forma della mafia e dell’indipendentismo del bandito Giuliano. Ma tutto quello che è successo dopo, anche la gestione del processo, ci spiega eloquentemente che non si trattava di un bandito ma che c’erano rapporti inconfessabili con le istituzioni.
È proprio questo che forse oggi ci rende un po’ pessimisti, vedendo connivenze politiche ancora molto forti. Che speranze abbiamo?

Le speranze ci sono sempre, guai a non coltivarle, ma credo che sia davvero importante sapere quali sono i canali attraverso cui la mafia rafforza il suo potere e la sua forza culturale. Forza che ha avuto per lungo tempo, ad esempio nell’antropologia del Pitrè in cui il mafioso era presentato come “l’uomo valente”, in Vittorio Emanuele Orlando che diceva: “se questa è la mafia io sono il primo mafioso”, ed era il Presidente del Consiglio in carica. C’è stata una cultura della mafia che ha avuto una sua egemonia, ma la sua forza sta in un complesso culturale più ambiguo che è un insieme di convinzioni, di luoghi comuni, di precetti di vocazioni che si contrappongono alla cultura della lotta alla mafia. Si ha un bel dire che non è mafioso chi dice certe cose, lo sappiamo! fatto sta che, smascherata per i suoi delitti dalla modernità civile che è avanzata anche grazie a queste donne, la mafia non è più in grado di vincere con una sua cultura elaborata direttamente, espressione dei suoi punti di riferimento politici, economici e criminali, ma vive come se avesse ingaggiato un’altra cultura, come se non avesse più un suo esercito sul piano culturale, ma avesse assoldato dei mercenari che dicono le cose che le servono.
E questo è il punto dolente oggi, il punto delle maggiori ferite, che viene discusso con la polemica, a vent’anni di distanza, sui “professionisti dell’antimafia”. È la cultura “di riserva” che, non essendo direttamente elaborata dalla mafia, ha maggiori possibilità di essere espressa e proposta, con una forza d’urto considerevole, perché di volta in volta può presentarsi come anticonformista, garantista, antiretorica, scapigliata… È qualcosa che va analizzato con molta attenzione.

Le donne raccontate nel libro hanno livelli culturali molto diversi: la ribellione e presa la coscienza possono essere raggiunti anche con poca istruzione…

La madre di Impastato aveva la quarta elementare, la madre di Carnevale nemmeno e si fa un vanto di avere lavorato nei campi per far prendere un “diploma” al figlio, che è poi il diploma della quinta elementare. Sono donne che hanno nella carnalità del rapporto con la società intorno a loro e nella simbiosi con il proprio figlio, la capacità e la forza di denunciare quello che vedono.
C’è qualche cosa di vero nel messaggio che manda don Ciotti: “diffidate di color che hanno una grande alfabetizzazione sulla mafia, tornate analfabeti”. (Naturalmente tutti sappiamo che bisogna studiare, conoscere, capire il fenomeno!). Ma don Ciotti intendeva dire: tornate ad analizzare il problema della mafia dalle cose quotidiane e per capire come vanno quelle non c’è bisogno di studiare. Bisogna partire da là, dalle ingiustizie elementari dal diritto alla vita, dal rifiuto del sopruso, dai grandi valori e sentimenti, per decidere da che parte stare
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