Amarcord. Novelli, Rossanda e il partito democratico

Ma è davvero un peccato l’Amarcord? La nostalgia, la memoria, il rimpianto, la consapevolezza? Ieri sera abbiamo presentato in una cooperativa della Barona, quartiere a sud di Milano, un bel libro. Si chiama “Com’era bello il mio Pci”. L’ha scritto un comunista che ha fatto il sindaco di Torino: Diego Novelli. Che ha rappresentato il Pci nella capitale della Fiat e le istituzioni negli anni di piombo. Il titolo era venuto in mente a me. E gliel’ho proposto. Alla fine ho vinto le sue resistenze. Perché mi è venuto in mente quel titolo, a me della Margherita? Perché non mi sembra giusto che la storia di quel partito debba essere vista come un cumulo di errori, come un relitto del passato, con  tanto di sorrisi compassionevoli: le Frattocchie, le salamelle, la sezione disadorna e un po’ lugubre, i volantinaggi da disperati alle sei del mattino. Intendiamoci. So bene che cosa non mi va della cultura e dell’ideologia del Pci (e un po’ dei suoi eredi). Le ambiguità, le tragedie (sempre giustificate o edulcorate) sullo sfondo. E altro. Ma so anche che cosa quel partito ha fatto: insegnare la storia, la “loro” storia, perfino la filosofia e l’economia, ai deboli, compresi gli analfabeti del dopoguerra; dare diritti a chi non sapeva di averne; stare in prima fila contro il terrorismo proprio mentre fioccavano le accuse di averlo tenuto in grembo; battersi contro la mafia; tenere aperta ogni anno quella grandiosa palestra di cultura e confronto che è stata la festa dell’Unità, con il suo popolo di cui ho già fatto gli elogi qualche post fa. Ecco, mi sembrava giusto che un libro ne parlasse. In modo anche leggero, con le vignette (che Novelli temeva tantissimo), ma con aneddoti veri, rivelatori di una storia grande e faticosa. Be’, a giudicare da ieri sera, in questo momento il bisogno di amarcord è davvero grande. E va rispettato.

Occorre però che chi vuole ricordare sappia avere egual rispetto per chi crede nel partito democratico. Lo si può non condividere, come progetto. Ma perché, come ieri è pur accaduto, prevederne solo le forme più spregevoli e catastrofiche? Perché additarlo come il luogo delle nequizie politiche prossime venture? C’è sempre bisogno di contraffare l’altro per averne meglio ragione? Non mi piace per niente quest’aria. Mi ricorda quella che segnò i rapporti tra Pci e Psi negli anni ottanta. E non è finita bene per nessuno. Chi è sparito, chi si è dimezzato. E in mezzo B. a comandare e disfare l’Italia.

Fatto l’appello al buon senso, devo aggiungere che un altro amarcord di grande bellezza lo sto trovando, su uno splendido piano di raffinatezza letteraria, nella “Ragazza del secolo scorso” della Rossanda. Non sono ancora a metà (ma benedetti, perché questa mania di scrivere 400 pagine?), ma mi sembra un gran bel libro. Segnalo tre cose. Il giusto rilievo che Rossanda dà alla parola “nefando”, ossia a ciò che non bisogna neanche dire perché poi accade (ce lo siamo scordati l’etimo…). Poi il racconto di quegli operai che arrivavano in sezione sempre vestiti “con decoro”, perché erano poveri; che mi ha fatto venire in mente la grande risposta data qualche sera fa da un giovane esperto di “buone maniere” in un’inchiesta del Tg1 sulla volgarità (“La prima cosa da fare? bisogna tornare a vestire con decoro”). La terza cosa è che, dice l’autrice, c’è una bella differenza tra la parola radicale e l’azione radicale. Quanto è vero!

E ciò mi riporta alla questione del partito democratico. Rifaccio la domanda che ho fatto ieri alla presentazione del libro di Novelli. Amici cari, amici parlamentari della sinistra radicale, sia voi sia io abbiamo in mente con chiarezza i nostri colleghi di partito (moderati o radicali) che in parlamento non fanno nulla, non vanno in commissione, leggono il giornale, che se fosse per loro i furbi ci fregherebbero sempre con un comma piazzato di straforo. Radicali in che? Così, mica per gusto di polemica…

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