Andreotti e la mafia. CARO ORLANDO NON CAPISCO

(l’Unità, 23 gennaio 2006) – Caro Luca, stavolta devo scriverti. E pubblicamente, perché troppo pubblica è la questione che hai sollevato ieri con l’intervista al “Corriere della Sera”. Hai detto che, se fosse dipeso da te, Andreotti non sarebbe mai stato inquisito. Il Corriere ci ha subito piazzato un bel titolo: “Un errore processare Andreotti”, continuando sulla linea (già inaugurata con Sciascia e i famosi professionisti…) di usare il titolo per dire un’altra cosa; o, se si preferisce, per meglio lucidare le proprie “ragioni”. Vedo che hai già corretto. Che hai precisato che i processi non sono per te né giusti né sbagliati, e che sono i magistrati a doverne valutare la “giustezza” in base alle leggi, le quali non devono tenere conto delle valutazioni della politica. Bene, va bene così. Così ti riconosco, risento il tuo modo di pensare. Così come ritrovo nell’intervista il tuo argomentare sornione e provocatorio, il tuo gusto di stupire e di scompigliare le carte.

Quel che però proprio non capisco è la tesi (che aveva già enunciato in un’altra intervista al “Corriere” Tano Grasso) secondo cui avremmo sbagliato a delegare la lotta alla mafia ai magistrati. A dar loro una “delega eccessiva”. Luca, scusa, ma chi li ha mai “delegati”?


Questa è esattamente la teoria che da decenni vogliono accreditare i neutralisti, o i “tiepidi” che hanno riempito la scena pubblica di un paese insanguinato. E’ il passaggio obbligato per dipingerci come giustizialisti, noi colpevolmente diversi da chi invece avrebbe – lui sì – saggiamente (e prudentemente) puntato sulla lotta politica. Ma quale delega? Ma te li ricordi, Luca, i viaggi senza risparmio per tutta Italia, da Trento a Palermo, a parlare di mafia, a denunciare, a costruire nuove nervature civili e poi politiche? Te li ricordi i visi incantati dei giovanissimi, nemmeno potevano votare, che sognavano un paese senza mafia? Tu poi meno di tutti ti sei risparmiato, mentre io e altri ti chiedevamo di tirare il fiato perché le cose andavano anche organizzate, pensate, e non solo predicate, iniettate nella coscienza civile. Ti ricordi quella notte a Bari, era la primavera del 1990, dopo una serata con l’università gremita, tu a presentare il tuo “Palermo”, io a presentare il mio “Storie”, in cui ti proposi di fare qualcosa di simile a un partito, un movimento organizzato, in cui raccogliere quella tensione civile che cresceva ogni mese di più? Chi ci dà i soldi?, mi obiettasti. Li trovammo, ipotecando le nostre case. E la prima campagna elettorale della Rete, massacrante ma inebriante, alle regionali siciliane del ’91, quella la ricordi? Certo che la rivedi. Era una successione frenetica di comizi, contro la mafia, per la legalità, per una nuova economia, con le parole speranza e futuro che rimbalzavano da una piazza all’altra dell’isola, un appuntamento via l’altro, fino a quella incredibile serata in cui dovevamo arrivare a Mazara alle dieci e ci arrivammo alle due di notte e c’erano ancora duecento persone ad aspettarci. Chi ha delegato che cosa? Abbiamo dato vita a un movimento che ha portato, con quei poveri mezzi di cui disponeva, dodici deputati e tre senatori in parlamento e che fu decisivo nella battaglia per l’abolizione dell’immunità parlamentare, non ci credeva nessuno che ci saremmo riusciti. Con tutti i limiti delle nostre persone, noi con altri abbiamo fatto quel che un politico, un esponente della società civile organizzata può fare. Parlare, denunciare, fare leggi, esercitare controllo parlamentare. E, dove è stato possibile localmente, governare.


No. Davvero non ci siamo seduti davanti alla televisione o sugli spalti di uno stadio a gridare forza giudici, frugando nervosamente nel sacchetto dei pop-corn per calmare l’impazienza. Abbiamo fatto il nostro dovere, che altri hanno cercato, cercano da vent’anni, di rubricare sotto una infinità di voci spregiative, perfino il khomeinismo hanno scomodato. Così come molti altri, per fortuna, hanno fatto in campi diversi dal nostro il loro dovere. I preti di trincea predicando, gli insegnanti educando, gli intellettuali (pochi) riflettendo e usando parole preziose, i giornalisti raccontando, gli studenti fondando circoli e giornalini, i sindacalisti difendendo i diritti dei più deboli, i cittadini comuni partecipando a manifestazioni e fiaccolate.


Abbiamo sostenuto i giudici più impegnati? Ma certo, e ci mancava pure che li esponessimo all’isolamento, dopo avere capito che quella era l’anticamera dell’assassinio. Ma mai abbiamo anticipato, nei singoli processi, i nomi dei colpevoli. Abbiamo solo chiesto che finalmente, in questo paese generoso di assoluzioni per insufficienze di prove e di amor di quiete verso i potenti, si facessero i processi ai mafiosi, in piena indipendenza dalle pressioni politiche o finanziarie o dalle intimidazioni armate. E’ stato un delitto chiedere che si facessero i processi ai mafiosi e ai loro complici? Potrebbe mai esistere paese civile là dove non fosse mentalità acquisita che questi processi vanno fatti, che il crimine non può restare impunito? E il dirlo è “delega” ai magistrati o è richiesta che tutte le istituzioni siano fedeli ai principi costituzionali?


Torni sulla vicenda di Sciascia, che sempre più sta diventando il nervo scoperto di qualcosa che a questo punto non è solo stampa, informazione; ma è memoria indigesta, brulichio di sensi di colpa, voglia di rimozione, fino a diventar dogma. Affermi, anche tu come Tano Grasso, che Sciascia disse cose giuste. Non so, sembra quasi di trovarsi di fronte a un atto di fede da recitare compunti. “Sciascia disse cose giuste”. Ma me le dite, per favore, queste cose giuste? Tra virgolette però, non inventando quel che nel suo articolo non c’era (non c’era sicuramente la questione della delega alla magistratura). Le tante cose giuste che disse nei suoi libri ovviamente sono altra cosa. Qui è urgente capirsi, non costruire l’ennesima realtà virtuale.


Insomma. A me non piacciono i “duri e puri”. Non mi piace per principio chi non sa capire le ragioni che stanno fuori dalle sue. Temo anzi che il dibattito sul partito democratico produrrà fuochi d’artificio di duri e puri ovunque. Né a noi, tu e io e i nostri amici di movimento, piaceva sentirci duri. Rivoluzione gentile dicevamo, e per questa utopia ci prendemmo i rimbrotti di padre Turoldo. Ma coerenza e memoria di ciò che siamo stati, questo sì. Non ci fu alcuna delega nemmeno su Andreotti. Tu lo attaccasti da sindaco, provocando il suo pubblico invito a votare a Palermo la Dc “dal numero 2 in giù” (tu eri il numero 1). Io lo attaccai nel 1984 su “Delitto imperfetto”, prima del maxiprocesso, in assoluta autonomia dalle scelte dai magistrati. Errori quel movimento impetuoso ed esigente ne fece. E sia tu sia io ne potremmo fare un lungo elenco, ben diverso da quello che viene compilato da chi ebbe sempre in fastidio l’antimafia. Ma con questa storia della “delega ai magistrati”, davvero finiamola. Dopodiché, come è ovvio, amici come prima. Mi dirai, se vorrai, le tue ragioni. Se vincerai le primarie a Palermo sarò felice di aiutarti come altre volte nella tua battaglia per Palazzo delle Aquile. Che conquistasti nel ’93 – ricordi anche questo, ne sono sicuro – con quella grande massa di giovani dietro di te, entusiasta e ricca di speranza. Quei giovani convinti che, anche se gli avevano ammazzato i migliori magistrati siciliani, ci avrebbero comunque pensato loro a battere la mafia. Con la politica. E in prima persona.

                                                                     

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