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Legge Pecorella. Ma la rima lì fu bella
Evviva, la legge Pecorella è incostituzionale. Lo sapevamo, lo sapevo. Era una follia pensare a una giustizia in cui potesse chiedere l’appello solo l’imputato condannato, e non la parte offesa rimasta senza giustizia. Era stato perfino disperante per alcuni di noi, sfiniti dalla legislatura, dovere affrontare gli ultimi giorni all’opposizione per contrastare quella ennesima legge ad personam. Doverlo fare in un parlamento la cui durata era stata prorogata proprio per questo. Doverlo fare dopo che già il presidente della Repubblica si era rifiutato di firmarla. Ci dimentichiamo troppo spesso – ho l’impressione – di che cosa abbiamo visto nei cinque anni di B. al governo, e non lo dico certo per sminuire gli errori o i ritardi dell’attuale governo. Be’, dopo questa sacrosanta sentenza di incostituzionalità mi si permetta una piccola rivendicazione: di avere dato allora il massimo risalto mediatico possibile all’indignazione di chi aveva a cuore la giustizia scegliendo di fare il mio intervento nell’aula del Senato in rima, con una filastrocca più profonda di quanto sia apparsa quel giorno ad Aldo Cazzullo, che sul “Corriere” si compiacque di dileggiarmi comparando i miei versi con quelli (per lui magistrali, per me volgarotti assai, e molto poco trilussiani) di Antonello Trombadori anni settanta.
Se avessi fatto un intervento duro, durissimo, indignatissimo, con il clima che c’era non mi avrebbe calcolato nessuno. E tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, complice il crepuscolo di quella legislatura. Ora vorrei ricordarlo. Fu cosa giusta. Servì a dire, almeno, che non “delegammo tutto” ai giudici, nella fattispecie alla Corte Costituzionale. Che ricorremmo (perché i miei colleghi erano d’accordo) alla formula espressiva più eclatante che avessimo a disposizione, e che non per nulla fece il giro del mondo su internet in pochi giorni. Perciò, tsé, alla faccia di chi volle la legge, rieccovi di lato quella denuncia in rima. Ora me le gusto con un sapore più piacevole. Giustizia è fatta.
DALLA CHIESA (Mar-DL-U). Signor Presidente, sul piano della decenza istituzionale nemmeno gli ultimi giorni ci vengono risparmiati. Sembra di essere agli ultimi giorni di Pompei. Anche mentre il Parlamento si avvia verso la sua data di scioglimento noi siamo qui, costretti a varare con tempi contingentati un provvedimento di favore, l’ennesimo, nato dalle vicende giudiziarie del Presidente del Consiglio.
È un fatto che ha in sé qualcosa di scandaloso anche sul piano formale. Guardate il frontespizio del disegno di legge. Pensate. Una legge fatta per il Premier e che porta la firma di un solo deputato, l’onorevole Pecorella, solo lui, ossia il suo avvocato difensore. Credo non ci siano precedenti del genere in nessuna democrazia, sotto nessuna latitudine.
Vede, signor Presidente, i greci parlavano di "Hybris" quando l’idea di giustizia veniva così degradata. Hybris per indicare il concetto di confine, di misura e la sua violazione. Hybris come eccesso di forza, come dismisura. E nella dismisura, diceva Platone, sta l’origine di ogni male.
Aristotele – mi si perdoni la doppia citazione – rendeva il concetto ancor più esplicito: per lui Hybris indicava il fare o il dire qualcosa che costituiva un’ignominia per chi la subisce. Con questa legge, a subire l’ignominia sono, oltre che la dignità del Parlamento, il senso di giustizia del Paese e le vittime dei reati. Hybris divenne poi, nella cultura greca, violazione del limite, addirittura volontà di trascendere la condizione umana, dunque di mettersi al di sopra degli uomini, di rompere – con sacrilegio – il confine che esiste tra gli uomini e gli dei.
Mettersi al di sopra dei mortali: vedete bene come la storia greca ci offra parole che appaiono pensate proprio per i nostri giorni (e d’altra parte c’è una ragione se il discorso sulla democrazia di Pericle recitato da Paolo Rossi è stato censurato dalla RAI; ripeto: Pericle censurato dalla RAI). Hybris proprio per questo, come intreccio di illecito sociale e di illecito religioso.
Quest’ultima, ennesima legge, collocata negli ultimi giorni di legislatura, richiama con potenza plastica quel concetto. Per questo non argomenterò per l’ennesima volta, e inutilmente dei guasti e delle iniquità di questa come delle altre leggi ad personam (questa, poi, più incostituzionale di tutte le altre, anzi incostituzionale in radice), ma interverrò in forma diversa, per esprimere il mio dissenso in modo, infine, più icastico. Un modo inusuale, come inusuale e parossistico è il limite a cui siamo stati portati. Farò un discorso in metrica, del tutto rispettoso delle prescrizioni del nostro Regolamento. Spero che qualcuno dei molti senatori sensibili seduti nei banchi della maggioranza ne ricavi una sia pur leggera situazione di disagio per quanto stiamo approvando.
Pavlov
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