Tra calcio e carri armati. La leggenda di Puskas

Chi mi conosce sa che non ho, mediamente (mediamente, ripeto), un’eccelsa considerazione dei giornalisti, specie di quelli che per ragioni inesplorabili si ritrovano in mano le chiavi della grande politica. Non che  ne abbia una bassa considerazione; però non ne ho nemmeno una considerazione alta come quella che essi hanno di sé (e dei propri diritti verso il mondo che raccontano). Ecco. Luigi Bolognini è un po’ il contrario dello stereotipo di giornalista che i fatti della vita mi hanno indotto a formarmi. E’ un cronista milanese di “Repubblica” bravo, umile e dai molti interessi. E’ uno che non apprezza molto il mondo d’oggi. E pur essendo piuttosto giovane (34 anni) guarda con nostalgia al mondo di qualche decennio fa; che non ha conosciuto, e che lo ha preceduto.

Forse per questo ha scritto un libro sulla storia della grande Ungheria di Puskas e Hidegkuti, una delle più belle e romantiche nazionali della storia del calcio. La chiamavano Aranycsapat, la squadra d’oro voleva dire. Era la prima metà degli anni cinquanta e quella nazionale invincibile (battuta solo ai mondiali del ’54 dai tedeschi straripanti di anfetamine) finì per simboleggiare la gioia possibile di un popolo su cui si stendeva il cielo plumbeo di un regime intollerabile. Finché i carri armati russi giunti a stroncare la rivoluzione di Budapest disfecero quella squadra leggendaria, mandandola in diaspora per il mondo, a rendere grandi (e altrettanto leggendarie) le squadre che illustravano un regime di segno opposto, quello della Spagna fascista: Kocsis e Czibor a far grande il Barcellona e soprattutto il colonnello Ferenc Puskas a fare grandissimo il Real Madrid, la squadra che stava nel cuore del dittatore Franco.

Bolognini ha scritto la vicenda dell’Aranycsapat con tratto delicato e struggente, intrecciandola senza retorica con uno degli eventi storici più drammatici di tutto il Novecento, e ordendo la trama del romanzo intorno a un giovanissimo tifoso di nome Gabor, un fan di Puskas convinto – fino alla terribile prova contraria – che i trionfi della grande Ungheria fossero, un po’ come poi le imprese astronautiche della Russia o quelle delle nuotatrici dell’est tedesco, il segno infallibile della superiorità del comunismo. Un bel libro per chi ama il calcio e per chi ha provato l’effetto magone, qualche settimana fa, alla notizia della morte di Puskas, il meraviglioso fuciliere degli stadi. Troppa è la materia che mi si affaccia alle memoria parlandone: da quando volli andare a sette anni con mio padre alla stazione di Milano ad accogliere i profughi ungheresi a quando sette anni dopo vidi un fantastico gol di Puskas in tivù una sera in casa a Roma: Real-Rangers di Glasgow 6-0; al volo, da trenta metri, di sinistro mi pare, una maglia bianchissima. Troppa materia. Perché alla fine la vita è sempre più piena di un romanzo. (Dimenticavo: il titolo del libro è "La squadra spezzata. L’Aranycsapat di Puskás e la rivoluzione ungherese del 1956" e l’editore è Limina).

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