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Abu Omar. Perché non mi dimetto
Lo sapevo, ne ero certo. Pochi mesi ed è arrivato. Il suggerimento, intendo. Dimettersi dal governo. “Per coerenza”. Il riferimento è alla vicenda di Abu Omar, l’imam rapito a Milano da agenti Cia, su cui indaga la procura di Milano. Ricostruisco al volo per chi non abbia seguito gli ultimi sviluppi. Venerdì scorso una nota dei procuratori aggiunti Spataro e Pomarici ha accusato il governo di non avere ancora dato corso alla domanda di estradizione per gli autori del rapimento, che fu indirizzata nella scorsa legislatura all’allora ministro Castelli. La nota della procura rivolge inoltre un’accusa a un gruppo di senatori della passata opposizione: avere sollecitato con un’interrogazione parlamentare il ministro Castelli a inoltrare quella domanda e non battersi oggi più per lo stesso scopo. Tanto più, si dice, che in quel gruppo c’erano due attuali sottosegretari, ossia Alberto Maritati e il sottoscritto. I quali, si vorrebbe suggerire, da quando sono sulla “poltrona” hanno rinnegato le loro idee.
A rimorchio arriva il tam tam tipico di queste occasioni. Insistente. Diversificato. Perché non parlano, non scrivono, non si battono? E come fanno a stare in un governo che – questa l’accusa – accetta la violazione dei diritti umani? A questo punto si dimettano. Appunto: lo sapevo. Tanto che a chi mi aveva rimproverato di non essere andato alla Giustizia, per garantirvi comunque la presenza di un esponente delle battaglie condotte dai movimenti, avevo risposto: “Oggi mi dite così, ma appena ci sarà qualcosa che non vi piacerà, mi chiederete di dimettermi. Per coerenza, direte”. Facile profezia. Che si avvera anche se sono all’Università e non ho alcuna responsabilità di quanto accade nell’altro ministero.
Dirò la verità. A me quel comunicato della procura di Milano è sembrato un’ingiustizia. Non priva (per l’autorevolezza della fonte) di conseguenze su un certo senso comune. Perciò intendo contrapporre a quell’inusuale atto di sindacato politico i miei argomenti. Ovviamente con la maggiore pacatezza e il maggiore rispetto possibili. La questione è infatti assai più ampia di quanto lo specifico argomento possa suggerire. E riguarda una complessiva idea di istituzioni e di governo; un’idea del rapporto tra cittadini, motivazioni etiche e rappresentanza politica. Dunque è bene prendere il toro per le corna, prima che si diffondano tormentoni e convinzioni fragili quanto carichi di veleni. E andare a un ripasso della Costituzione.
Punto primo. In questo paese vige la separazione dei poteri. E per fortuna. Se no la democrazia sarebbe un guscio vuoto. Durante il governo Berlusconi lo abbiamo gridato più e più volte. Parlamento e governo non sono la stessa cosa. Il governo governa e il parlamento esercita il controllo sui suoi atti. A tal fine i parlamentari dispongono di specifici strumenti, fra cui quello dell’ interrogazione parlamentare. E’ ovvio che chi è fuori dal parlamento (come il sottoscritto) non se ne possa avvalere; non possa cioè svolgere di nuovo l’atto (l’unico atto) svolto sulla vicenda di Abu Omar quando era in Senato e a cui fa polemico riferimento la procura di Milano. Punto secondo. Nel governo (da quando esistono i governi democratici) si lavora per competenze. C’è una collegialità di indirizzo che viene stabilita nel consiglio dei ministri sotto la guida del presidente del consiglio. Poi nei singoli ministeri ministri e sottosegretari decidono, sotto la guida del ministro, come attuare gli orientamenti generali. Decidono cioè come governare la fetta d’Italia (o di interessi nazionali) che è stata loro affidata. E ognuno ha un compito – un insieme di deleghe – su cui viene misurato: portare al paese, al termine del mandato, il frutto del lavoro svolto. Il migliore possibile. Se nel far questo è costretto ad agire contro i suoi principi, a dare il proprio imprimatur a scelte fatte altrove contro l’interesse generale, allora sì, si pone la questione delle dimissioni “per coerenza”.
Aggiungo che non è questo (per ora) il mio caso. Lavoro con un ministro che ha la mia stessa passione per le regole, per la moralità pubblica, per la serietà delle istituzioni. Che ha appena firmato un progetto che gli ho presentato per la promozione dell’etica professionale nelle università, a cui decine e decine di docenti hanno già offerto la propria disponibilità a collaborare. E continuo a occuparmi di educazione alla legalità, tanto che il comunicato con l’accusa di incoerenza della procura di Milano mi ha raggiunto mentre facevo assemblee contro la camorra ad Aversa e a Casal di Principe. Insomma, rispettando le competenze, ho potuto portare per intero il mio bagaglio biografico (compreso l’impegno sulla criminalità organizzata) nella mia funzione istituzionale.
Obiezione: ma quella di governo è una responsabilità collegiale. Di fronte a fatti importanti bisogna parlare comunque. La mia risposta (che spiega perché esista una teoria delle competenze) è molto pragmatica. Amici cari, siamo più di cento membri del governo. Ma ve l’immaginate se ognuno di noi selezionasse ogni anno non dico tanti, ma cinque-sei temi importanti, cruciali – che so: il Libano, l’Afghanistan, le coppie di fatto, l’immigrazione, i servizi segreti, ecc. – e su quelli decidesse di parlare, esprimendo la sua opinione non in generale ma per discutere e criticare i singoli atti del governo? Forse che il piacere di sentire qualche voce dissonante, vicina alle proprie idee, sarebbe più auspicabile della babele micidiale che si ingenererebbe fino a ridicolizzare e mettere in ginocchio il governo? Ma non sta montando anche per questo una insofferenza profonda (e giustificata) nel nostro elettorato per i sottosegretari che marciano contro se stessi?
Cultura di governo è anche questo: rispetto dei ruoli. Rinuncia a dire su molti argomenti le proprie opinioni; o le cose che al “proprio” pubblico piacerebbe sentir dire. Perché c’è prima di tutto la propria coerenza con un modello di istituzioni, per il quale ci si è sinceramente, e non strumentalmente, battuti dall’opposizione. Divisione dei poteri, centri di responsabilità definiti. Per essere chiari: sulla questione specifica di Milano non ho cambiato idea. Anzi, credo che, al di là delle valutazioni che farà il governo nei luoghi deputati, si debba comunque ringraziare la magistratura milanese per avere voluto affermare (almeno nei limiti delle sue competenze) il primato delle leggi sul suolo italiano verso chiunque. E su questo, in pubblico, mi fermo.
La tesi delle “dimissioni comunque” pone però un altro problema, forse ancor più generale. Ed è che invocare il principio della responsabilità collegiale per esortare a uscire dal governo “per coerenza” presenta un rischio evidente: tenere stabilmente, strutturalmente fuori dalle istituzioni di governo gli esponenti politici più sensibili alla questione morale o della legalità. E’ innanzitutto o esclusivamente a loro, infatti, che viene indirizzato questo invito. E ognuno glielo indirizza scegliendo il tema che, di volta in volta, pretende che sia cruciale o ultimativo, il più importante di tutti. E siccome ogni governo, anche il più progressista, specie se è chiamato a guidare un paese carico di arretratezze civili come il nostro, e soprattutto se ha in parlamento i numeri che sappiamo, è costretto a fare molti compromessi (e magari a ingoiare ogni tanto qualche minestra indigeribile), basta qualche mese per avere subito a disposizione un’ampia rosa di pretesti. E per chiedere agli interessati di abbandonare, di gettare la spugna; così da lasciare ad altri, nei loro settori, il governo della cosa pubblica, con grande gioia dei signori delle tessere. Per chi lamenta da anni la qualità morale media delle nostre istituzioni, un vero capolavoro.
admin
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