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La sagra del lamento
(l’Unità, 13 marzo 2007) – Dunque Letizia Moratti sindaco di Milano, comandante in capo di migliaia di agenti della polizia municipale, annuncia che scenderà in piazza a protestare contro il governo per avere più sicurezza. Vuole più polizia di Stato: perché a Milano, da quando lei non è più al governo a Roma, si commettono meno reati. Woody Allen non avrebbe potuto immaginare nulla di più surreale. Ma la Moratti non è sola. Rappresenta il vento che tira nel paese, recita il copione più in voga. La sagra del lamento. Sant’autorità martire. Basta prendere, ad esempio, le perduranti inaugurazioni degli anni accademici (ma anche degli anni giudiziari). Che sempre più spesso sembrano diventare le occasioni per sciorinare, quasi con voluttà, i malanni della propria istituzione, le carenze, le farraginosità, le inadempienze (altrui), le promesse (sempre altrui) non mantenute, i ritardi tecnologici, gli organici ristretti o non coperti e così via; in un crescendo rossiniano che tocca l’apoteosi negli applausi finali del pubblico, monito sonoro per il rappresentante di turno del governo, destinatario di tanta corrusca elencazione.
Solo la stoica abnegazione dell’oratore e di tutti i plaudenti, sembra ogni volta di dovere dedurre, ha tenuto in piedi quegli uffici o quell’università o quell’accademia. Ora, è certo che molte sono le carenze che segnano la vita delle nostre istituzioni. Molte le domande giustificate di nuovi e maggiori fondi. Ben condivisibili le preoccupazioni per i noti tagli. E in ogni caso legittime, specie in certi contesti, le denunce di indolenze o scelte governative. Né mi sfugge che l’inaugurazione dell’anno accademico o giudiziario o l’intervista di un sindaco siano una buona sede per comunicarle al pubblico.
D’accordo su tutto. Ma c’è alla fine, in tutto questo, qualcosa che ugualmente stona, inquieta e, in certe occasioni, addirittura preoccupa. Qualcosa che interroga sullo stato del paese. Non solo finanziario, materiale, organizzativo. Ma culturale, civile, istituzionale. il nuovo anno del ministero dell’università. E che io tenga la prima metà della mia relazione impostandola all’incirca così. Cari professori, cari studenti, che ci volete fare, qui lo Stato proprio non funziona. Non ho fondi nemmeno per organizzare in proprio un convegno, fosse anche il più importante. Neppure sulle materie per cui ho la delega. Se voglio condurre urgentemente una piccola ricerca devo fare i salti mortali perché il ministero non può prendere consulenti e la gran parte dei suoi dipendenti non ha la formazione adatta. Quelli che ce l’hanno bisognerebbe sottrarli a compiti quotidiani più importanti, dunque ciccia. Non ho un addetto stampa come ce l’ha qualunque assessore di una grande città; sono costretto ad arrangiarmi come posso con il sito del ministero, che ho dovuto all’uopo fare cambiare. Sono stato per venti giorni senza le buste intestate per spedire la corrispondenza di sottosegretario di Stato. Gli auguri istituzionali di Natale sono rimasti bloccati quindici giorni per mancanza di fondi per i francobolli. Viaggio per tutta Italia ma ogni tanto devo anche anticiparmi le spese di viaggio, con rimborso a mesi. Ho avuto perfino il problema del riscaldamento serale dell’ufficio (ricordate le famose lamentele sui termosifoni da chiudere in università?), risolto con il cappotto o con un goccio di whisky. Dimenticavo: il ministero è lontano mezz’ora dal parlamento e quindi ogni spostamento mi fa perdere minimo un’ora di lavoro. E via seguitando. Con invito finale a protestare insieme contro i livelli superiori del governo o, perché no, contro il parlamento.
Che cosa voglio dire? Per capirci proviamo a fare un rapido esperimento mentale. E immaginiamo che al sottoscritto venga chiesto di tenere in un’aula di università, o di accademia, o di conservatorio, una comunicazione ufficiale. Titolo:
Allora, che ne direste se facessi un discorso del genere, tutto vero e documentabile? Direste, e giustamente, che ho smarrito il senso del mio ruolo. Che sono in apnea mentale. Perché chi ha il compito di guidare un’istituzione deve spiegare anzitutto che cosa sta facendo lui (o lei) con i mezzi che ha a disposizione per risolvere i problemi più urgenti. Che uso fa lui (o lei) delle risorse che gli vengono affidate. Come le razionalizza e le valorizza. Qual è lo scenario, presente e futuro, che ha in mente. Che cosa pensa di potere fare domani e dopodomani. Che risultati sta ottenendo. E se si è in periodi di magra per risanare le finanze pubbliche ed evitare la bancarotta dello Stato, dovrebbe anche spiegare che ricetta ha predisposto, con cultura, con fantasia, con la mobilitazione morale della propria comunità, per fare le nozze con i fichi secchi. Un’autorità istituzionale, insomma, è un leader che “suscita” e che “consola”, per usare i due classici verbi manzoniani. Di più: è il garante davanti alla collettività che la “sua” istituzione fa il massimo, ma davvero il massimo, per realizzare i fini che ne giustificano l’esistenza. Gli può anche essere necessario levare denunce, richiamare le difficoltà, le scarsità, le necessità insoddisfatte, le pigrizie burocratiche, per spiegare le proprie scelte, per meglio collocarle nel quadro dei vincoli (e delle opportunità) esistenti. Ma non può farne l’anima ideologica del proprio discorso.
Non può, insomma, fare il capopolo. Perché chi è autorità istituzionale non può essere Masaniello. E invece è proprio questo che accade sempre più spesso oggi, quasi fossimo condannati a scontare in differita ai piani alti del Palazzo la cultura che dall’attico è stata sparsa per anni a piene mani: ossia l’eredità di Berlusconi presidente del consiglio, l’uomo che dalla guida del governo esortava all’evasione fiscale o raccontava le barzellette sulla Finanza, dava dei matti ai giudici e chiamava sovversivi i membri della Consulta. Il potente che si fa vittima e sceglie il bersaglio istituzionale contro cui scagliare il “proprio” popolo. E’ esattamente questo che inquieta passando da un incontro ufficiale all’altro o leggendo certe interviste. E’ il ritrovare strapazzato il senso della responsabilità istituzionale. E’ il sentire evocare continuamente il merito e vedere applaudire il lamento. Da qui la domanda: che classe dirigente si è mai formata nel paese? Perché questa riluttanza culturale a dar conto di sé, anzitutto, e possibilmente in un quadro comparato credibile?
Il fatto è che sul tradizionale deficit di senso delle istituzioni è piombata, come un ciclone, l’onda lunga del berlusconismo. Avevano ben ragione coloro che prevedevano che l’eredità morale degli anni passati sarebbe stata ancora più grave di quella finanziaria. Ma su questo piano non si può indugiare. I soldi possono non esserci. La serietà va tirata fuori subito. A tutti i livelli.
Pavlov
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