Mission etica per l’università

(Europa, 29 marzo 2007) – Come riformare l’università? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Sui modi e sulle priorità. Concorsi, status giuridici, tipi di laurea, governance, esami a crediti. E altro ancora. Tutti campi di battaglia su cui tradizionalmente si affrontano eserciti portatori delle divise e delle bandiere più diverse. Ma ci sono anche modi meno presenti (o per nulla presenti) nel dibattito pubblico. Si può, per esempio, provare a riformarla lanciando dalla facoltà di giurisprudenza di Palermo un messaggio preciso: l’università deve fornire alle classi dirigenti del futuro un’etica della professione, un senso della loro responsabilità sociale. Esattamente questo ha fatto il governo (con il ministro Mussi e con il sottoscritto) presentando l’altro ieri il progetto “Ethicamente”. Che vuol dire che si può incidere sui comportamenti, sulla missione, sulla cultura diffusa di una istituzione culturale non solo intervenendo sul suo scheletro (la struttura) ma anche modificando il suo software, la sua anima. Perché forse la riforma più importante dei luoghi in cui si fa cultura riguarda esattamente il tipo di cultura che vi si trasmette. Riforma dolce; di quelle che, senza gli scossoni caratteristici delle riforme dell’hardware (che possono pur essere necessarie), sono in grado alla fine di dare al paese istituzioni più ricche e cariche di motivazioni; e soprattutto più utili per costruire il suo futuro. Non leggi organiche e “di sistema” che consegnano pomposamente alla storia il nome del riformatore. Ma impulsi e indirizzi che -semplicemente, senza sfondare le prime pagine- aiutano la storia civile a prendere cammini diversi.

Che cos’è dunque “Ethicamente”? E perché lanciarlo proprio da Palermo? “Ethicamente” è un progetto volto a promuovere in tutto il sistema universitario un nuovo approccio alle materie che vi si insegnano, agli studi che vi si compiono. Un approccio che sottolinei che non vi è cultura professionale di valore se non è alimentata da una dimensione etica. Se non c’è insomma, alla base di ogni cultura professionale, un giuramento di Ippocrate interiorizzato e non solo recitato. Per gli avvocati come per gli architetti, per i giornalisti come per gli imprenditori, per i dirigenti di banca come per i medici, per i commercialisti come per i diplomatici, per i maestri elementari come per gli amministratori pubblici. Come per i professori universitari, ovviamente. Questo approccio ha già iniziato a farsi largo nel nostro sistema accademico. Studi su etica e affari, sulle deontologie professionali, sulla stessa cultura della legalità, hanno coinvolto con successo diverse sedi universitarie e numerosi docenti e studenti. Si tratta di diffondere queste esperienze sotto la spinta e l’incoraggiamento del ministero, di aiutarne il coordinamento e di farne una parte pregiata dell’attività didattica e di ricerca. Di offrire un marchio di qualità a corsi, seminari, incontri, tesi di laurea, progetti di ricerca. E di pensare, a contatto con le zone più sensibili del sistema universitario, occasioni mirate di confronto. Di scegliere temi attuali e anche scomodi per rinnovare l’elaborazione teorica come per rimodellare atteggiamenti e linguaggi professionali. Il fatto che circa un centinaio di docenti abbia dato la sua disponibilità a partecipare al progetto prima ancora della sua presentazione ufficiale dice che esso raccoglie e rilancia una domanda e un bisogno comunque sentiti nel paese.

E perché, altra domanda, partire proprio dalla facoltà di giurisprudenza di Palermo, sede poco adatta a garantire gli impatti mediatici offerti dalle più prestigiose sedi politico-istituzionali romane? Semplice. Perché per giungere all’aula magna di giurisprudenza di Palermo si passa davanti a una stele su cui è inciso un lungo elenco di nomi: servitori dello Stato laureati in quella facoltà, magistrati e commissari di polizia. Costretti a testimoniare nel modo più duro quanto abbia pesato sulla nostra vicenda collettiva la debolezza dell’etica pubblica e delle professioni. E che in vita richiamarono invano più volte all’attenzione di tutti quella debolezza, quella mancanza di responsabilità sociale che operava nei luoghi nevralgici della società; e il ruolo decisivo che essa giocava nello spianare alla criminalità organizzata le praterie più ospitali. Non per caso, credo, hanno partecipato alla presentazione del progetto, oltre a tanti docenti impegnati da decenni, Pina Grassi, la moglie di Libero, l’imprenditore che disse no alle pretese estorsive della mafia; o i giovani di “Addio pizzo”; o Ettore Artioli, il vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno, che va predicando con nuova convinzione il rispetto delle regole; o Leoluca Orlando, che per primo chiese negli anni ottanta all’università palermitana di mettersi alla testa della rinascita morale della città.

Riuscirà la scommessa? Entrerà una nuova ventata nella nostra università? Capiranno gli studenti che l’educazione alla legalità fatta nelle scuole non è materia da rinchiudere nello zaino dell’adolescenza ma la premessa di culture professionali solide, responsabili e prestigiose? Questo governo ha, tra i suoi molti compiti, quello di ridurre il divario a volte sconfortante tra il benessere materiale del paese e il grado del suo sviluppo civile. Ognuno faccia la sua parte. L’università ha pensato di farla anche in questo modo.

 

Leave a Reply

Next ArticleTelegramma forbidden. Così parlò il Tesoro