Il Novecento nelle vite di Weisz e Puskas. Un calcio lungo il secolo breve

(Europa, 10 aprile 2007) – Il grande calcio del secolo scorso, i suoi simboli ungheresi e i totalitarismi. La narrativa calcistica continua  a proporre storie struggenti e suggestive. Sono da poco in libreria due racconti capaci di appassionare i tifosi e non solo loro. Il primo si intitola "Dallo scudetto ad Auschwitz" (Alberti editore) e lo ha scritto Matteo Marani, giornalista del Guerin sportivo. Il secondo si intitola "La squadra spezzata" (Limina) e lo ha scritto Luigi Bolognini, giornalista anomalo di Repubblica. I protagonisti delle due storie sono un allenatore, Arpad Weisz, vincitore di tre scudetti nel campionato italiano degli anni trenta, e uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio, Ferenc Puskas. Ma se l’origine ungherese, gli stadi, il pallone e i drammi del totalitarismo sono ciò che accomuna l’allenatore e l’attaccante, le loro vicende e il taglio stesso dei due libri sono profondamente diversi. La storia di Arpad Weisz è il dramma per antonomasia del Novecento. Le leggi razziali, i campi di concentramento, il buco nero della ragione che si fa scienza del male. Allenatore d’avanguardia, studioso delle tattiche e ottimo psicologo, uomo colto e intelligente, Weisz fu in Italia il principe della panchina. Poco famoso come calciatore, espresse, come spesso succede, il meglio di sé da "tecnico". Portò allo scudetto l’Internazionale di Milano e poi due volte il grande Bologna degli anni trenta, di Schiavio, Andreolo e Puricelli, che fu per intero una sua creatura. Allevata e cesellata con lungimiranza e amore. Fino alle famigerate leggi del ’38. Che non risparmiarono nemmeno lui, costretto a cercare riparo in Olanda con tutta la famiglia. Senza scampo, purtroppo. Anche lì, un mattino di agosto del ’42, giunsero le divise della Gestapo a prelevarlo per portarlo su un treno, destinazione finale Auschwitz.

Marani ripercorre la storia di Weisz mettendo in campo il fiuto di un segugio e rimescolando senza sosta la curiosità e la pietas. Il libro è, sotto questo profilo, quasi un miracolo documentaristico. Le poche notizie ufficiali di un calcio che allora non straboccava di cronache dei suoi eroi vengono usate per ricostruire con pazienza filologica la vita e i successi dell’allenatore. E vengono convogliate verso la tragedia, di cui vi è certezza solo perché a un certo punto di Arpad Weisz, allenatore del Grande Bologna, si perdono le tracce. Marani è affascinato da questa voragine della memoria. E si mette sulle tracce dell’allenatore facendo il mestiere dello storico, frugando negli archivi d’ogni parte d’Europa, con il fragile (ma decisivo) sostegno delle testimonianze di un compagno di scuola del figlio maschio dell’allenatore. Alla fine conquista la certezza documentale. Il luogo e la data, Auschwitz 31 gennaio 1944. Weisz era sopravvissuto per un anno e mezzo a sua moglie e ai suoi due figli. Così l’autore ci restituisce, fuori dal mistero, la storia di un mito del calcio che era stato letteralmente rimosso dalla nostra memoria collettiva. Ed è proprio quella della rimozione, forse, la più forte e inquietante sensazione che rimane appiccicata al lettore. Nessuno di noi nati nel dopoguerra, a pensarci, sentì mai raccontare -del calcio che non aveva vissuto- la storia di quel grande allenatore ebreo portato senza ritorno nei campi di sterminio. Nemmeno quando, con il celebre spareggio contro l’Inter del 1964, il Bologna tornò a vincere il suo nuovo e ultimo scudetto, qualcuno ne parlò mai; anche se proprio l’allenatore del Bologna nuovamente campione, Fulvio Bernardini, era stato uno dei suoi giocatori.

E proprio del calcio da lui non vissuto scrive, questa volta sotto la forma di romanzo, Luigi Bolognini nel suo  "La squadra spezzata", sottotitolo "L’Aranycsapat di Puskas e la rivoluzione ungherese del 1956". Qui in realtà i protagonisti sono due. Ferenc Puskas con la sua "squadra d’oro" (questo vuol dire Aranycsapat) e Gabor, bambino e poi ragazzo che impara a vedere il mondo attraverso le gesta della sua squadra del cuore, la Honved di Budapest e la nazionale ungherese che la ricalca quasi per intero. Quella di Gabor è l’Ungheria del dopoguerra, la squadra dalla maglia rossa che gioca nel grande Nepstadion (lo Stadio del Popolo) costruito con il contributo volontario dei lavoratori. L’Ungheria che dal 1950 al 1955 dà lezione di calcio a tutto il mondo rappresentando la più alta espressione delle "realizzazioni socialiste" di quel paese, in cui un ministro dell’interno poteva essere ucciso per alto tradimento senza che ci si facesse troppe domande. E’ l’Ungheria di Kocsis e di Czibor. Di Bozsik e di Hidegkuti. Di Grosics e di Puskas, il cannoniere implacabile, il sinistro "con la pancetta"; che Gabor, "pioniere" comunista, vive come il proprio faro di vita, colui che gli regala la felicità in un paese povero e grigio. E’ l’Ungheria che in quei sei anni perde una partita sola. Quella decisiva, purtroppo. La storica finale dei mondiali di Berna del ’54. La partita che ne avrebbe dovuto suggellare la superiorità indiscutibile e che la vide invece soccombere per 3-2, dopo essere stata in vantaggio per 2-0, contro i tedeschi imbottiti di amfetamine.

Fu quella sconfitta l’inizio di una frattura latente nel rapporto tra il popolo ungherese, rimasto senza sogni, e il Partito. Una frattura nella quale Bolognini scava con partecipazione e anche lui, come Marani, con la curiosità dello storico; anche se – rispetto a Marani – ha la fortuna di potersi mettere sulle tracce dell’allora inviato speciale a Budapest Indro Montanelli. Il ritratto della Rivoluzione ungherese che esce dall’intreccio tra le vicende calcistiche e le delusioni e le speranze dell’adolescente Gabor conquista il lettore proprio per la chiave inedita del racconto. I carri armati alla fine schiacciano le idee di libertà fiorite in pochi giorni nelle piazze, protagonisti gli studenti universitari e gli operai. Finché la sera del 4 novembre la radio annuncia che "Le forze socialiste dell’Ungheria popolare, insieme alle truppe sovietiche chiamate in loro difesa, si assumono disinteressatamente il compito di costituire il governo rivoluzionario operaio e contadino", spiegando che il governo "controrivoluzionario" di Imre Nagy non c’è più.

Puskas non c’è più nemmeno lui. E’ all’estero con la sua nazionale. E lì rimarrà per sempre, a giocare da campione fino a quarant’anni al fianco di Alfredo Di Stefano nel Real Madrid, squadra del cuore di un’altra dittatura. Gabor, la splendida invenzione narrativa di Bolognini, scende invece di scatto dal treno dei profughi dov’è appena salito con i genitori. Il suo posto è a Budapest. Negli ultimi fuochi della rivolta.

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