Come si valuta un’università: pacato dissenso

Riflessioni in pillole dopo un convegno all’università di Tor Vergata sulla "valutazione". Che vuol dire, nel gergo, valutazione della qualità degli atenei. Tutti gli intervenuti, professori e opinionisti, sono stati d’accordo su una cosa. Hanno detto che bisogna passare dal controllo dei processi (ossia delle procedure e dei modi) a un controllo del prodotto. Giustissimo, sono d’accordo. Meno attenzione alla logica burocratica e al rispetto delle prescrizioni ministeriali,  più attenzione ai risultati.

Io però ho un dubbio. Un forte dubbio. Che si è fatto largo nel corso della discussione. Ossia che pur essendo d’accordo tutti sul principio, non siamo invece d’accordo – pur senza dircelo – su quale sia il "prodotto" da misurare per dire se il risultato è buono. E’ dal dibattito sulla Finanziaria che mi porto dietro questo tarlo: che chi lavora in università pensi in fondo che il vero prodotto dell’università, quello da valutare, sia la qualità della ricerca, o il numero di pubblicazioni internazionali dei suoi docenti o altro ancora. Io dico invece che il prodotto dell’università è la qualità della formazione dei suoi studenti. Che si nutre certo anche della ricerca svolta dai docenti e ricercatori. Ma con una fondamentale avvertenza: che dove c’è poca attenzione alla missione principale dell’università (la formazione delle nuove classi dirigenti) potrà pure esserci ottima ricerca ma c’è scarsa didattica e dunque, alla fine, bassa qualità del "prodotto". Questo equivoco va sciolto. E su questo intendo impegnarmi fino in fondo. Perché l’università senza studenti non ha alcun senso. Ed è proprio perché ci sono loro che ha la sua bellissima specificità. Altrimenti sarebbe un ente di ricerca. Che è tutta un’altra cosa. O no?

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