Dal vostro inviato a Copenhagen

Proprio così. L’avevo annunciato solo a pochi amici: sono venuto a fare il week end (lungo) a Copenhagen. Era il regalo di Natale del 2005 per Emilia. Poi rinviato e rinviato, ogni volta per una buona ragione politica, con la poverina che annuiva a ogni nuovo motivo. Alla fine ho programmato da novembre: viaggio (con i punti millemiglia) per il week end dopo Pasqua. Non quello di Pasqua per non essere circondato da frotte di italiani. E nemmeno uno distante da Pasqua per non dare tempo all’insorgere di altre urgenze artificiali (insomma: sono stato intelligentissimo, almeno in questo…). Dunque, a Copenhagen non c’ero mai stato, perciò quello che racconterò potrà apparire scontato e ovvio. Per me invece sono tutte impressioni alla rinfusa da incamerare e rielaborare.

Allora. Le biciclette. Tante, tantissime e con le loro piste vere, come si sa. Ma quel che mi ha colpito è che almeno la metà, quando sono posteggiate, non hanno blocchi o catene a protezione dai ladri. Visti tantissimi ragazzi e ragazze lasciarle incustodite in mezzo a montagne di altre bici. E visti tantissimi riprendersele con la massima normalità. Poi i bambini. Quantità per me sconosciute, così (un po’ di più in verità) ne avevo viste solo a Dublino. Trattati con ogni attenzione: nei parchi, nel traffico, nei fantastici tricicli rovesciati in avanti su cui vengono portati. Forse qui non avranno il culto della famiglia come da noi che siamo tutti cattolici, ma i bambini sono certamente più rispettati. Così pure dicasi per le donne incinte. Cammini e le vedi subito, come un dato normale della vita, non come un’eccezione; in mezzo alle birrerie, lungo i canali, nello struscio su e giù per le enormi isole pedonali, spesso con altri bimbi in carrozzina, con ciuccini grandi fino al naso. Musei: pochissime misure di protezione (visto un Guercino senza vetro, statuine egizie a portata di mano) tanto nessuno si azzarda a toccare, nessuno scrive i suoi nomi con cuore trafitto su un muro, e nessuno ci scrive su "suca" o altre piacevolezze.

Le coperte. Qui il mio provincialismo mi ha fatto sbarrare gli occhi come il pastore delle meraviglie. I clienti dei bar che stanno all’esterno, sulla strada, non vengono riscaldati con i nostri impianti a fungo, tipo piazza Duomo o Pantheon. Vengono tutti forniti di una coperta che si mette sulle spalle, dello stesso colore per ogni bar o caffè. All’inizio non capivo, poi ho trovato l’idea eccellente e perfino romantica. Non parliamo delle strisce pedonali, assolutamente l’unico posto per il quale si passa se si vuole cambiare marciapiedi. Ma questo è risaputo. Meno risaputo è che qui la gente cammina ancora parlandosi, non gesticolando e parlando da sola. Già, alludo ai telefonini. Se in Italia ce n’è uno su tre che non lo tiene acceso mentre cammina, qui ce n’è uno su cento (a dir tanto) che lo usa per la strada. Mi sembra (e lo dico anche autocriticamente…) un buon misuratore di civiltà (a proposito della valutazione). Nessuna nota negativa? Be’, fanno ancora fumare negli esercizi pubblici, anche se ovunque gli impianti di areazione sono molto efficaci. E in più: se solo vi appoggiate a qualche sasso, catena o altro modesto arredo urbano della piazza del Palazzo Reale, poco ci manca che vi prendiate uno schioppettata. I divieti cioè non sono scritti e se fate qualcosa che è vietato (e non lo sapete) vi arriva addosso un urlo militare come se steste sgozzando Gesù Bambino. In ogni caso il tempo è stato stupendo, i giovani che si affollano sui canali sembrano divertirsi di più di quelli che si affollano sui nostri navigli (hanno anche più spazio), tra gli artisti di strada ho visto per la prima volta anche i calciatori palleggiatori (un ragazzino sui tredici faceva numeri da Maradona), anche qui ci sono i truffatori (e i gonzi) del gioco delle tre carte, chi lavora nei negozi (in genere ragazze carine) ha l’aria allegra. Le librerie non so dire, ancora non ce l’ho fatta a visitarne una. Domani comunque torno a casa con il mio impermeabile da tenente Colombo ancora più sgualcito. Adelante.

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