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Io lo vorrei democratico. Ma davvero
(Europa, 18 aprile 2007) – Evabbe’, l’entusiasmo è come il coraggio di don Abbondio. Se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Perciò immaginare che un normale cittadino lo possa provare di fronte al Partito Democratico sol perché qualcuno gli ripete che il progetto è entusiasmante o affascinante è pura illusione. Certo, già l’annuncio che ci saranno regole utili a suscitare la partecipazione popolare, a evitare che il progetto sia solo un matrimonio d’interesse tra ceti politici, può aiutare a renderlo meno freddo (il cittadino, intendo). Ma oggi il grande problema, a mio avviso, è soprattutto uno: capire davvero che cosa voglia dire “Partito democratico”. Che cosa voglia dire dar vita a un partito che si qualifichi soprattutto e anzi esclusivamente attraverso quell’aggettivo. Il più comune, il più snobbato. Democratico. Per molti è un termine sfibrato e senza senso. Chi non è democratico, in fondo? Forse che non è democratica la Costituzione, nostra culla e cornice, la Carta che tutti ci rappresenta? A parte che questa Costituzione ci ha spaccato quasi come una mela un anno fa con un referendum la cui posta era la nascita di un sistema plebiscitario, a parte questo, dicevo, il fatto è che la nostra storia ha una paradossale specificità: di avere visto crescere nell’alveo di una Costituzione democratica forze politiche che della democrazia avevano una visione dimezzata. Diciamo una visione da guerra fredda. Perché non ricordarlo oggi, alla vigilia di due congressi che – anche sulla scia di importanti, lunghi mutamenti, simboleggiati dalla nascita dell’Ulivo – daranno il via al partito democratico? Perché fare solo l’epinicio delle nostre “grandi tradizioni”? Certo può essere scomodo fare i conti con il passato. A nessuno piace lottare con il proprio pedigree. Eppure la scelta di farlo, oltre a essere un esercizio di onestà intellettuale, serve a dare tutta la misura del salto culturale, dell’opera ideale alla quale ci si intende (e ci si deve) dedicare. Nutre, appunto, quell’entusiasmo che non può sprigionarsi solo dalle buone regole.
Democratici. Non è per nulla un flatus vocis… Erano davvero, intimamente democratici i partiti che lottavano per i diritti sindacali e politici in casa nostra ma ne accettavano la limitazione o addirittura l’annientamento più brutale nei paesi che avevano la sventura di essere finiti nel patto di Varsavia? Democrazia e carri armati. Democrazia e complicità silenziose che portano a chiedere (onestamente) scusa a decenni di distanza. Democrazia ed espulsioni per i dissidenti. Tutto ciò non è invenzione di una storiografia revisionista e opportunista.
E tuttavia la guerra fredda aveva due facce. Dove l’altra faccia era quella del maggiore partito di governo che assisteva imperterrito, per esempio, all’assassinio di quaranta sindacalisti da parte della mafia. Mai una condanna giudiziaria. Impunità per chi procurava i voti. Né per nulla la massima magistratura esprimeva gli orientamenti del periodo spiegando, in dotti articoli di dottrina, che la mafia svolgeva una funzione democratica proprio in virtù del suo ruolo anticomunista. Democratici e comprensivi verso chi era comprensivo (o complice) del nemico più spietato che avrebbero avuto le istituzioni democratiche, anche al prezzo di contare i propri esponenti migliori tra le vittime di quel nemico. O le felpate testimonianze davanti alle stragi. Come dimenticarle? Nemmeno questo è invenzione o frutto di storiografia maliziosa. Com’è stato possibile tutto questo -insieme, anzi nel cuore di tanti, grandi, progressi- se non grazie a un’idea di democrazia distorta dalla divisione del mondo in due, giustificabile la dittatura franchista e intollerabile quella cecoslovacca e viceversa, dipendeva da che parte si stava? E ancora: era democrazia costituzionale, fondata cioè sul primato delle istituzioni, quella che ha infeudato le istituzioni ai partiti politici, facendo dei fini di questi ultimi i fini veri della politica?
Davvero c’è molto da riflettere sul senso e sulla forza dell’aggettivo “democratico” nella storia del nostro paese. Non perché si sia vissuti in una jungla o sotto una dittatura. Ma perché l’amputazione subita da quell’aggettivo nella storia concreta chiede oggi un radicale passaggio d’epoca. Che veda anche (ed ecco la differenza rispetto alla tradizione socialdemocratica) la fine dell’idea che la democrazia sostanziale sia data dalla somma e dal grado di sviluppo dei diritti dei lavoratori dipendenti sindacalizzati. Che affermi il principio che vi sono altri diritti, di pari e talora perfino superiore dignità. I classici diritti civili, certo. Ma anche i diritti degli utenti pubblici, per capirsi; i diritti dei consumatori, i diritti ambientali o dell’informazione, i diritti dei malati. E altri ancora,a partire da quelli degli stranieri che lavorano in nero. Così, mentre la caduta del Muro non concede più alibi alla democrazia dimezzata e ai suoi protagonisti, alle loro culture e ideologie rimodernate, al tempo stesso una idea nuova di democrazia si propone al mondo. Il Partito democratico nasce per questo. Non per mettere insieme le “grandi tradizioni”. Ma per fondarne una nuova. Per recuperare il tempo perso mentre il mondo corre come il vento. E vi sembra poco?
Pavlov
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