Terrorismo. Mario Calabresi e gli altri figli

Sì, il libro a cui ho accennato in uno dei miei ultimi post, promettendo di parlarne dopo venerdì,  e   dicendo che mi ha fatto molto pensare e commuovere, è proprio quello di Mario Calabresi, come intuisce Stefanoski in un suo commento. Si chiama "Spingendo la notte più in là". E solo per non fare la figura (orrore!) di chi vuole demonizzare l’avversario, aggiungo che lo ha pubblicato Mondadori. Avevo promesso a Mario di rispettare l’anteprima di Repubblica, il suo giornale. Poi, dopo consultazione con Antonio Padellaro, ho deciso – anziché fare una recensione – di scrivere una lettera aperta a sua madre Gemma Calabresi. La trovate qui accanto. L’Unità ha titolato: "Terrorismo e i figli che non dimenticano". E’ un titolo impreciso, perché l’assassinio di Calabresi non fu  compiuto da terroristi (che non l’hanno mai rivendicato), ma proprio per questo fu qualcosa di peggio: frutto di una cultura politica che aveva un retroterra di massa, non atto di un’ organizzazione clandestina del terrore. Il titolo però è preciso in altro senso. Perché entra nel vivo di un problema, quello della memoria di chi ha subìto la violenza. E infatti Mario scrive il suo libro riannodando i fili della sua vita con quelli di altri figli: di Alessandrini, di Tobagi, di Custra (l’agente ucciso nella famosa giornata milanese in cui viene scattata la foto del giovane autonomo che spara per strada; gli hanno pure cambiato il nome, a quell’agente, appiccicandogli l’accento sulla "a") e di altri. Tra questi altri c’è la figlia di Fausto Dionisi, l’agente per il concorso al cui assassinio venne condannato Sergio D’Elia, attuale membro dell’ufficio di presidenza della Camera. Mario riflette senza isterie sulla formula "hanno pagato il loro debito con la giustizia". E riflette sul destino delle vittime, che non si interrompe mai, perché il loro "debito" con la storia o con il destino invece non si estingue mai. Mi ha colpito la testimonianza di Cristina Marangoni, figlia di un primario del Policlinico di Milano, colpevole di avere denunciato gli infermieri che per sabotaggio avevano staccato la spina del frigorifero in cui era contenuto il sangue per le trasfusioni; e colpevole di avere cercato di fare pulizia nel sistema di complicità tra dipendenti e pompe funebri. E per questo indicato, "fabbricato" come "servo della Dc". E ucciso. Cristina a un certo punto si lascia scappare, ripensando ai terroristi visti e sentiti al processo questa espressione: "erano dei cazzoni". E Mario, che non ama il gergo forte, lo trascrive apposta. E io pure, che non amo il gergo forte, trascrivo questo giudizio, perché ci si pensi. Aggiungendo che su questo libro di riflessioni se ne potrebbero fare da scriverne altri dieci. Buona lettura.

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