Caso Parmalat. La legge del discredito

(l’Unità, 23 maggio 2007) – E parliamone pure del discredito della politica, di questa malattia profonda, di questo tumore civile che in tanti hanno nutrito per ingrandire i propri destini. Parliamo di questa pietanza rancida che cuochi multicolori hanno cucinato nei decenni, uno di qua uno di là, con scrupolo pari all’incoscienza. Le accidie e i narcisismi. Gli affari inconfessabili e i privilegi ingiustificabili. La fine del diritto di voto e le parole senza onore. Ma anche le demagogie a buon mercato e le picconate plebiscitarie. E il senso di ingiustizia che ci circonda, lo smarrimento davanti al primato di ogni interesse particolare. E la latitanza della politica. Anche quando rivendica grottescamente il suo primato. O al contrario, perfino, il suo essere in prima fila a fare polpette dell’interesse generale brandendo princìpi o ideologie che, alla resa dei fatti, mandano lo stesso suono delle monete false.

Ladies & Gentlemen, a voi il caso Parmalat. A voi un caso paradigmatico dello stato della giustizia nel nostro paese. Di un paese dove ogni giorno si sente parlare dei diritti del mercato. Delle sue regole. Della sua trasparenza. Degli interessi legittimi degli azionisti e dei risparmiatori. Decine di migliaia di persone truffate in allegria e in sostanziale impunità. Con la decisiva complicità di uffici e sportelli bancari che consigliavano riservatamente e “in virtù del nostro rapporto fiduciario” di comprare Cirio, Parmalat e bond argentini, e mica solo singolarmente ma anche tutti insieme. Anzi: più erano anziani i risparmiatori e più insistente si faceva il consiglio di un bel pacchetto tutto compreso.

Ecco a voi dunque le sembianze di un sistema che, forse ormai senza colpe personali di alcuno, protegge con naturalezza i malfattori. Lo scontro in aula tra la procura milanese e i difensori dei risparmiatori nel processo per aggiotaggio che ha come retroterra la Grande Bancarotta parmigiana, è la spia del paradosso che si è consumato: la trasformazione della “giustizia minima” nella “giustizia massima possibile”. Il rispetto irrisorio delle aspettative di risarcimento e di punizione come alternativa alla beffa più totale e assoluta. Eravamo stati facili profeti nel dire che l’eredità peggiore degli anni berlusconiani sarebbe stata quella morale. E così è. Il discredito della politica – meglio: di tutto ciò che è pubblico – ci rovina addosso proprio per l’effetto devastante degli atti di governo di chi guida e sobilla l’antipolitica da più di un decennio. Ma anche per altro, ammettiamolo. Anche per l’incapacità dell’altro schieramento di stagliarsi cristallinamente diverso all’orizzonte. Lo scandalo Parmalat maturò in un contesto politico dai contorni sfuggenti, e che in ogni caso il centrodestra non visse come “suo”, tanto che ci si gettò a corpo morto per ergersi a moralizzatore del mercato, a Catone mediatico, appena dopo avere licenziato l’indecorosa legge sul falso in bilancio. Furono bagliori ipocriti. Perché poi le leggi berlusconiane offrirono a quello stesso scandalo e ai suoi protagonisti ogni riparo. Uno dopo l’altro, con un’attività legislativa condotta per mano, passo dopo passo, a garantire impunità totale al premier e ai suoi amici. Prima le norme sul patteggiamento, accarezzate alla Camera anche dall’opposizione. E poi la Cirielli, con i suoi tempi di prescrizione scolpiti a riassumere plasticamente la filosofia di un’intera legislatura. E infine, a maggioranze parlamentari cambiate, giunse l’indulto, un indulto mai visto nella storia di alcun paese avanzato. La grande festa era completa.

Non c’è dubbio. Il discredito della politica nasce da una sfiducia secolare verso il potere, intrecciata con un altrettanto secolare servilismo. Poiché nessuno più del servo sa, per esperienza diretta, che il potere non ha etica o moralità. E tuttavia se scontiamo ancora nel Duemila un qualunquismo atavico, è anche perché esso si nutre ogni giorno di ciò che vede, della nausea suscitata da tanta quotidianità, della penuria di esempi grandi e visibili. Si nutre del senso dell’ingiustizia e della percezione di un vuoto di princìpi. Che cosa possono pensare decine di migliaia di risparmiatori (sottolineo: decine di migliaia di persone -di cittadini, di elettori- in un colpo solo!) quando vedono che i loro risparmi sono senza effettiva tutela, che i sacrifici che molti di loro hanno fatto sono stati irrisi e malmenati, non solo perché si sono trovati sul proprio cammino manipoli di lestofanti, ma anche perché la giustizia non funziona, perché anzi la giustizia è stata accomodata -falso in bilancio, patteggiamento, Cirielli, indulto- alle esigenze dei truffatori anche con qualche iniquo patto trasversale tra i partiti? Ricorderanno, quelle decine di migliaia di persone, la scientifica trafila delle leggi berlusconiane? Si ingegneranno di fare la differenza tra il prima e il dopo, daranno un nome alle macerie morali o non vedranno solo le macerie e in mezzo alla polvere confonderanno gli uni e gli altri in una condanna senz’appello?

Dire questo non significa incoraggiare il qualunquismo. Ma capirne le radici e, per quanto possibile, aiutare a prevenirlo. Così come aiuta a prevenirlo – lo vogliamo dire? – il sapere parlare seriamente di sicurezza o delle inefficienze della pubblica amministrazione o delle lottizzazioni selvagge o delle riproduzioni clientelari delle dinastie o delle candidature dei pregiudicati. Il maremoto sale. E non basta assecondare i terreni di discussione prediletti (quelli sì) dal qualunquismo: una Camera sola, dimezzare i parlamentari ecc. Bisogna passare dalla superficie agli strati profondi. Se il parlamento attuale, con le sue due Camere, con i suoi numeri pletorici, avesse comunque fatto buona politica sulla giustizia, se si fosse posto il problema dei diritti diffusi di un’economia di mercato, se avesse rappresentato il senso delle istituzioni e delle leggi agli occhi di chi veniva truffato o (per usare una parola da bar) derubato dei suoi averi, oggi esso avrebbe altro prestigio. E avrebbe contribuito ad arginare un poco questo umore di rivolta che sale dalle viscere, dagli istinti, ma che ha radici nella realtà vissuta, nelle ragioni dei fatti. In fondo dev’esserci un motivo se oggi a riscuotere meno fiducia del parlamento restano solo loro, le banche.

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