Giovanni Falcone, 23 maggio, ore 17.50

23 maggio, ore 17.50 mentre scrivo. E scrivo ora (lo spiego a chi forse non può per storia propria capirlo) perché in questi minuti quindici anni fa veniva ucciso Giovanni Falcone. Con la sua moglie e compagna Francesca Morvillo. Con i suoi giovani angeli custodi Vito Schifani, Rocco Di Cillo e  Antonio Montinaro. Scrivo ora perché non ne posso più di questa abitudine di celebrare gli anniversari prima che arrivino, si tratti del rapimento Moro, dell’invasione di Praga o della strage di Capaci. Un giorno prima, due giorni prima, tre giorni prima, in una gara demenziale tra giornali a chi arriva prima dell’altro a fare una bella paginata di ricordi e di analisi e di ricostruzioni e di interviste. Ne ho discusso animatamente ieri sera con alcuni amici, proprio partendo dalla vicenda Falcone. Il 23 maggio celebrato il 22 o il 21 o il 20. Spostare la data dell’anniversario, cambiarla nella vera memoria collettiva in omaggio alle leggi mediatiche. Qui si mostra la nostra vulnerabilità. Se potessero o fosse utile per la concorrenza, sposterebbero il Natale al 23 dicembre e farebbero anche la messa di mezzanotte l’antivigilia o pure prima. Un po’ come in quella scena di Fantozzi in cui i membri dell’orchestra che animano la festa di Capodanno, per andare a guadagnare a un’altra festa, spostano le lancette dell’orologio del salone da ballo un’ora avanti. E quelli che ballano non se ne accorgono, dondolandosi felici nel tempo manipolato dai musicanti furbacchioni.

Scrivo ora perché ancora mi vengono i brividi a ripensare a come arrivò la notizia al Salone del Libro di Torino in quel sabato pomeriggio. Hanno ucciso un’alta personalità dello Stato in un attentato, dissero. Avevo presentato per la prima volta in quel pomeriggio “Il giudice ragazzino”, un libro pensato anche dietro la spinta inconsapevole di Falcone: lui aveva scritto infatti con amarezza sulla “Stampa” che di Rosario Livatino da lì a un anno non si sarebbe ricordato nessuno. E proprio mentre si presentava il libro che invece avrebbe aiutato a ricordarlo, toccava a lui…

Prima di tornare a Milano seppi che quell’alta personalità dello Stato era Falcone. Ma che era “solo” ferito. Quando giunsi a casa, Emilia mi disse che era morto. Ma che Francesca era ancora viva. Morì anche lei, come quei tre poveri e coraggiosi ragazzi che lo volevano proteggerlo. Non dormii e il giorno dopo, alla prima comunione di mia figlia, una suora mi rimproverò perché arrivai in chiesa in ritardo. Un po’ di rispetto, mi disse. Ancora mi complimento con me stesso per non avere reagito, soprattutto vedendo quel profluvio pagano di macchine fotografiche e di cineprese. Quando tornai a Roma sostenni subito che c’entrava qualcosa la vicenda, che si trascinava da settimane, dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Che quella strage non poteva esserle estranea. Si dimostrò che così era. Il resto non lo racconto perché l’ho fatto molte volte. Vi invito solo a non dimenticare la frase che Falcone mi disse testualmente quando gli telefonai dopo l’agguato fallito dell’Addaura. Degli uomini delle istituzioni, non dei mafiosi, disse queste tre parole: “Mi stanno seviziando”. A futura memoria.

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