Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
La bambina che sfidò Stalin
(l’Unità, 28 giugno 2007) – Lo sfondo, amici del partito democratico. Il grande sfondo storico su cui si staglia quello che stiamo facendo. Ecco, va illuminato a pieni riflettori. Riflettori belli forti, e perfino un po’ impudenti. O altrimenti capiremo – e faremo capire – poco del passaggio che stiamo realizzando. Perché presentare il partito democratico come l’evoluzione, magari allargata, delle nostre tradizioni "popolari" (e qualcuno intende "democristiane") e "socialiste" (e qualcuno intende "comuniste") rischia di uccidere il bambino in culla. Oserei dire: chiunque si candidi a guidarlo.
C’è un libro, un nuovo libro, che costringe tutti a fare bene i conti con il passato. A misurarlo con curiosità, a soppesarlo palpitando. A vedere lo sfondo, appunto; la storia da cui si viene. Per prenderne le distanze nel modo più radicale possibile, altro che "evoluzione". Questo libro si chiama "Una bambina contro Stalin". E l’ha scritto Gabriele Nissim, intellettuale che da anni conduce una meritoria ricerca sul totalitarismo sovietico e su quello nazista; sulle vittime e sui coraggiosi (i "giusti", nel linguaggio biblico) che seppero dir di no. Sua è l’idea della foresta dei giusti (un albero per ciascuno di loro); a lui dobbiamo la scoperta e la valorizzazione di una montagna di micro-documenti storici di valore irrinunciabile.
La storia del libro, elogiato nei giorni scorsi dai maggiori esponenti dei Ds, è perfino semplice nella sua brutalità. E’ un giorno del 1937 quando Gino De Marchi, poeta, regista e autore di documentari di propaganda socialista, viene prelevato dalla polizia segreta di Stalin negli studi cinematografici di Mosca, in cui lavora per il partito bolscevico. Come sia finito in Russia questo giovane intellettuale italiano è presto detto.
Ci venne mandato per punizione; per espiare la colpa di essersi fatto scappare, di fronte alla minaccia dell’arresto di sua madre, il nome di un giovane compagno quando, a diciannove anni, era stato arrestato come militante comunista di Fossano. Era il 1921, era finita l’occupazione delle fabbriche e lui aveva maldestramente organizzato l’occultamento delle armi raccolte dai militanti in vista della possibile insurrezione. Fu accusato di essere una spia del fascismo. Intervenne Gramsci in persona perché gli venisse offerta una possibilità di riscatto. Una volta in Russia, De Marchi venne però incarcerato, perseguitato da quella nomea di "spia" del fascismo". Di nuovo giunse un appello di Gramsci in sua difesa. Sicché gli diedero l’incarico di celebrare con la sua macchina da presa le conquiste dell’Ottobre. Lui si mise a farlo con entusiasmo genuino. Girava nei kolchoz, nelle fabbriche, nei luoghi in cui la Rivoluzione sfidava l’arretratezza di un continente intero per aumentare la produzione, per costruire la grande industria socialista. Con lui la moglie Vera, conosciuta e sposata in Russia, e la figlia Luciana.
Ed è proprio lei, Luciana, la "giusta" di questa storia finita solo pochi anni fa. Lei che aveva dodici anni quando il padre sparì per sempre in un’ auto nera in mezzo a tre uomini vestiti di scuro. Lei che andò con sua madre a chiederne conto negli uffici della Lubjanka. Lei a gridare alla onnipotente guardia della polizia segreta "mio padre è un comunista, non è un fascista". Lei a battersi per sapere la verità, per avere giustizia, per riabilitare la figura dell’uomo che adorava e che nelle sue lettere, scritte rigorosamente in italiano, la esortava a essere scolara modello nella grande patria del socialismo.
Gino De Marchi venne fucilato neanche un anno dopo l’arresto. Nel 1938. Luciana rimase sola a battersi per il padre perché la madre, terrorizzata dal regime, lo rinnegò accreditando le accuse della polizia segreta. Ci vollero quasi vent’anni perché si rompesse un silenzio disumano. Nel 1956, nell’anno che è passato alla storia come quello della denuncia dei crimini di Stalin, si seppe dunque una prima verità: Gino De Marchi era morto di peritonite in un campo di concentramento. Ma ci vollero altri quarant’anni per sapere, nel ’96, la verità vera. Il regista era stato fucilato a Butovo, vicino a Mosca. Abbandonato dai compagni di partito, perfettamente coscienti di quanto gli era accaduto. Fu perciò con sorpresa che Luciana, quando giunse a Fossano per incontrare Giuseppe Biancani, un ex partigiano e deputato comunista che con coraggio e umanità straordinari aveva deciso di fare riemergere dal passato la storia del poeta-regista, scoprì che nella città natale del padre era stata dedicata una via a Giovanni Germanetto, esule antifascista, autore di un libro che aveva avuto molta fortuna, "Memorie di un barbiere". Perché si sorprese Luciana? Perché Germanetto era l’amico di suo padre. Era il comunista che lei si era abituata a chiamare zio. Colui al quale, con la naturalezza dei bambini, era corsa a chiedere aiuto quando il padre era stato arrestato. E che, con suo sgomento, di punto in bianco, nel momento del bisogno, si era rifiutato di parlarle, di toccarla, di ascoltarla. Pose dunque il problema al sindaco di Fossano. Perché una via a Germanetto, esule antifascista certo, ma testimone silenzioso e infastidito di una tragedia umana e politica, e non una via a suo padre? Il sentimento, la forza dell’ingiustizia vissuta, sfidavano uno dei più grandi drammi e dilemmi posti dalla storia politica del novecento. Il sindaco risolse il dilemma intitolando una via anche a De Marchi. Salomonicamente.
Roba recente, di questi anni. Apparenti "dettagli" che trascinano gli anni trenta fin dentro il nuovo millennio. E d’altronde chi leggerà la lunga storia delle testimonianze accumulate nei decenni su questa vicenda, si renderà conto di come la cultura degli anni di ferro abbia fatto le sue incursioni nei tempi più nuovi; edulcorata, modificata, ma sempre obbediente al principio che c’è Qualcosa a cui la verità, la giustizia, la dignità di un uomo possono e devono inchinarsi. Una cultura, insomma, che non può "evolvere".
Domani Piero Fassino si recherà con Gabriele Nissim a San Pietroburgo, al grande cimitero di Levashovo in cui sono sepolti cinquantamila fucilati dal Terrore staliniano. Molti ancora senza nome. Un cimitero che ha ormai assunto un ruolo prepotentemente simbolico. Visitarlo per ricordare un comunista fatto uccidere da comunisti su delazione di altri comunisti e nel silenzio di altri comunisti è un fatto di valore storico. Significa che non si denunciano "solo" più i carri armati di Budapest e di Praga, gli errori/orrori che vengono da fuori. Significa guardarsi dentro. Con il coraggio necessario per rompere con il passato proprio attraverso l’esercizio della memoria. Una memoria che comunque ci consegna figure di comunisti, da Gramsci a Biancani, che in quella storia seppero starci dando voce a sentimenti e a valori più alti della disciplina di partito.
Ecco perché diventa obbligato il riferimento allo "sfondo" su cui si costruisce il partito democratico. Che senso avrebbe, in effetti, dargli vita senza fare i conti con la Storia del paese che esso è chiamato a governare? Senza acquisire nella sua radicalità il nocciolo del pensiero democratico? Che senso avrebbe se tutti coloro che intendono parteciparvi non rendessero cristallina la superiorità di una cultura politica, del suo nucleo di valori e di principi? Davvero c’è bisogno di una riflessione. Occorre riconoscere come la nostra (non ignobile) vicenda democratica sia stata in fondo percorsa da un’idea amputata della democrazia. Nel clima dei totalitarismi del "secolo breve" e della successiva divisione in due del mondo vi fu chi coprì le tragedie del comunismo e chi finse di non vedere, altrove, le atrocità dei regimi fascisti e di chi li finanziava. O, più modestamente, vi fu chi non vide decine di sindacalisti e di servitori dello Stato ucccisi dalla mafia, ritenendo anche lui di doversi inchinare a Qualcosa di superiore: l’occidente, la democrazia, il partito; o perfino la corrente. Come suggerisce Nissim, la vera discontinuità liberatoria si realizza sulla scelta (di Vaclav Havel sotto il regime di Praga, ma già di Gramsci davanti alla tempesta in arrivo) di porre la verità al di sopra di tutto. Nasca da qui, soprattutto da qui, il partito democratico. E da qui Fassino parta domani per dare il senso più alto al suo gesto di onorare a San Pietroburgo le vittime del Terrore.
Pavlov
Next ArticleAccademiche evasioni. Dal vostro inviato a Brera