Grande Brera

(L’Unità, 7 agosto 2007) – Ferve a Milano il dibattito sulla Grande Brera. E una vasta
schiera di politici e opinionisti vi partecipa per accusare il governo (e in
particolare il ministero per l’Università) di volere boicottare un progetto
importante, importantissimo per la città. Il simbolo di un passaggio d’epoca. Una
condizione del rilancio culturale del capoluogo lombardo. Di che cosa si
tratta? In breve, con la formula "Grande Brera" si intende una
Pinacoteca assai più ampia e moderna dell’ attuale, in grado di ospitare più
funzionalmente un maggior numero di opere; e di moltiplicare i numeri (oggi un
po’ modesti) dei visitatori, allineandoli alle ambizioni di una grande capitale
d’arte. Come si pensa di raggiungere questo obiettivo? In primo luogo
annettendo alla Pinacoteca ampi spazi dell’Accademia di Brera, che convive
nello stesso storico edificio di via Brera, e spostando la gran parte di
quest’ultima in un’altra area della città.

Chi ha avuto questa idea? Il governo precedente. Gli allora
ministri Moratti (Università, competente per l’Accademia) e Urbani (Beni
Culturali, competente per la
Pinacoteca
) stipularono nel 2004 un accordo con il sindaco
Albertini, in virtù del quale, proprio in questa prospettiva, l’Accademia sarebbe
stata spostata nel nuovo polo universitario della Bovisa accanto ad
Architettura e Design. E lì avrebbe trovato una sede nuova di zecca da
affittare a un canone conveniente. Accordo accolto con ovazioni dalla stampa e
dall’opinione pubblica lombarde. Accordo che, in linea strategica, viene
condiviso anche dal nuovo governo. Tutto bene allora? No. Perché, ecco la
sorpresa, l’accordo del 2004 viene siglato, ma mai realizzato. Così appena arriva
il nuovo governo, che si industria semplicemente di capire quali siano le
modalità previste per l’operazione, lo si incolpa di volere boicottare tutto.
Di volere rinviare immotivatamente un progetto che, si ripete millanta volte, è
ormai "tutto pronto". La sede, il contratto, il finanziamento. Con
grave danno della Pinacoteca, che così non diventerà mai "grande".
Conclusione: il governo è contro il futuro di Milano.

Ma è davvero così? Già, perché a questo punto il lettore
penserà le seguenti cose. Anzitutto che il governo precedente abbia lasciato
bello e pronto un edificio in cui ospitare la parte più consistente delle
attività e delle funzioni dell’Accademia, giusto il tempo del trasloco. Poi immaginerà
che questo edificio sia stato progettato in stretto raccordo con la stessa
Accademia, verificando quanti studenti lo avrebbero all’incirca frequentato e
con quali esigenze didattiche. Poi, ancora, si farà la fantasia che, nella
città in cui si indicono le gare di idee internazionali anche per l’arredo
urbano, sia stata scelta -per la nuova Accademia di Belle Arti di Milano- una
architettura di particolare valenza estetica, selezionandola tra una pluralità
di progetti di grandi studi. Inoltre penserà che la ditta incaricata di
realizzare un edificio destinato -per impegno governativo- a un ente pubblico
abbia vinto una formale gara. E infine, magari, spererà che si sia pure
provveduto a garantire a Pantalone (ossia allo Stato) di non doversi
dissanguare per finanziare questo trasloco nel nome della Grande Brera (sempre
intesa come Pinacoteca).

E invece… Invece il comune lettore si trova davanti a una
storia che meriterebbe di finire di peso in un’inchiesta di "Report".
Con tanto di cifre, di documenti, di dichiarazioni ufficiali e di immagini dal
vivo. Perché l’edificio semplicemente non
esiste
. L’area della Bovisa dove si chiede a gran voce di trasferire
l’Accademia -ora, subito, adesso- è un prato incolto, una distesa di
sterpaglie. Anche se in fior di documenti ufficiali si scrive di edificio
"realizzato" o "in via di realizzazione". Non c’è letteralmente
nulla. Prova ne sia che il governo è stato sollecitato a iniziare il pagamento
dell’affitto (di un prato incolto) con un ingente anticipo, in modo da
agevolare l’avvio dei lavori. Chiaro il concetto? Come se un futuro inquilino
fosse chiamato a finanziare la costruzione della casa che prenderà in affitto.
E peraltro (si faccia attenzione) proprio questo era previsto nel contratto che,
sotto il precedente governo, avrebbe dovuto essere firmato con la società
immobiliare prescelta per la realizzazione dell’opera. Solo che quel contratto
non venne mai firmato da nessuno. Nemmeno lo volle firmare, per conto
dell’Accademia, il professor Zecchi, che ne era il presidente e che pure
calorosamente sosteneva l’idea della Grande Brera. E in effetti una cosa è
certa: un ente pubblico che firmasse quel tipo di contratto si esporrebbe immediatamente a un intervento della Corte
dei Conti se non della magistratura ordinaria.

Bene, è esattamente questo contratto, non firmato con il
precedente governo, che si è chiesto però al nuovo governo di
"onorare". Volete dunque sapere l’importo dell’affitto, al di là
della anomalia giuridica dell’anticipo da versare a scopo di finanziamento? Due
milioni l’anno, Iva compresa. Due milioni che da soli ingoierebbero, caricati
sul Ministero, un decimo delle risorse totali disponibili a questo scopo per più
di venti accademie e più di sessanta conservatori in tutta Italia. Due milioni
di affitto l’anno quando recentemente sono state costruite con poco più di un
milione trentasei nuove aule per l’Accademia di Bari. Non aule da affittare ma
aule di proprietà. Ma non è finita.
L’autorizzazione che il ministero aveva dato all’operazione sotto il precedente
governo (ripeto: mai seguita dai fatti) faceva riferimento a un edificio di
ventimila metri quadri. Perché queste, non di meno, sono le esigenze della
Accademia per effettuare il trasloco di una parte delle sue discipline (quelle
legate alle nuove tecnologie) nell’area della Bovisa. Sapete quante sono, nel
progetto presentato, i metri quadri utili per le attività didattiche? Meno di cinquemila, ossia un terzo di
quelle che -ragionevolmente- si estraggono da un edificio di ventimila metri
quadri conteggiando segreterie, corridoi, scale e altri spazi. E i motivi della
nuova sorpresa sono tanti: dal fatto che il progetto non si è confrontato con
le necessità dell’Accademia all’idea di infilare nei metri quadri dell’edificio
pure gli spazi per i parcheggi.

Personalmente, avendo la competenza sulla materia, ho
scritto al sindaco Moratti e all’assessore all’urbanistica di Milano. Benché
negli ultimi mesi essi abbiano dato la disponibilità a collaborare per
rimediare al "pasticciaccio", il centrodestra e i suoi intellettuali
sono insorti. Il governo vuole bloccare tutto. Posso dare la mia risposta? No,
il governo vuole fare. Semmai paga proprio la distanza insopprimibile (essa sì
fonte di ritardi) che c’è tra la politica dell’annunciare e la politica del fare.
Perché è quando si decide di fare sul serio che si pongono le seguenti domande:
quanti studenti e quanti professori ci metto dentro? Quanti spazi ha
effettivamente la nuova Accademia? Come sarà fatta, che immagine offrirà alla
comunità artistica internazionale? E quanto costerà affittarla o acquistarla
con un mutuo? E dunque: se comprare i cinquemila metri quadri utili costerebbe
(così garantisce l’Agenzia del Demanio) 26 milioni, quanto costeranno gli
almeno quindicimila che servono? E la gara per la realizzazione bisogna farla o
no? In definitiva: la politica deve porsi o no i problemi della qualità delle
cose che fa, del rispetto delle regole, del valore del pubblico denaro? O nei
famosi costi della politica non c’entra anche questo, scusate, il denaro
pubblico usato senza porsi troppi scrupoli?

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