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Generale e “sovversivo”. Quel 3 settembre
(l’Unità, 17 agosto 2007) – "Dalla Chiesa assassinato dalla mafia". Il titolo dirompente che aprì la mattina del 4 settembre del 1982 l’intera prima pagina dell’Unità (e, con poche variazioni, la prima pagina di tutti i quotidiani) fu come le parole "The End" messe a conclusione dei vecchi film del dopoguerra. Il punto di arrivo annunciato; quello che sai, già dall’inizio della proiezione, che giungerà prima o poi a chiudere tutto. Proprio così. Quella morte era stata annunciata in un dibattito pubblico durato cinque mesi. Un dibattito che senza troppi infingimenti aveva riguardato la presenza a Palermo del generale venuto dal nord con l’idea di fare il prefetto antimafia. Una cosa era chiara: il generale i poteri per coordinare la lotta alla mafia non doveva averli. "Che cosa può dare a dalla Chiesa uno stato di diritto?" aveva chiesto sulfureo ai cronisti il sindaco di Palermo, l’andreottiano Nello Martellucci, quello che giurava che lui la mafia non l’aveva mai vista, tanto meno nel comune di Palermo, reduce dai saccheggi del binomio Lima-Ciancimino. E quando venti giorni prima di quel 3 settembre si era tenuta al Viminale una riunione del Comitato nazionale per la sicurezza con la partecipazione del prefetto, il presidente della Regione Sicilia, l’andreottiano Mario D’Acquisto, ne aveva atteso le conclusioni in una saletta del ministero. Per poi gioire con i cronisti – alla notizia che i famosi poteri nuovamente non erano stati accordati – che il governo non avesse ceduto alla tentazione di annunci "reclamistici e propagandistici".
Non doveva averli i poteri, il generale. Non solo. Ma doveva essere umiliato, per quella sua pretesa incomprensibile di andare a rimettere i piedi nei verminai del potere mafioso. L’aveva già fatto due volte, all’epoca del bandito Giuliano e all’epoca delle prime Commissioni antimafia; e i mafiosi che lui aveva portato a processo, fossero gli anni cinquanta o gli anni settanta, li avevano sempre assolti, non l’aveva ancora capita? Era andato perfino a dire a Giulio Andreotti che avrebbe fatto il proprio dovere per intero, che non avrebbbe potuto avere occhi di riguardo nemmeno per i suoi grandi elettori siciliani. Era questa la gratitudine verso il potere democristiano dopo gli incarichi avuti contro il terrorismo? E infine doveva pure essere isolato, il generale. Perché si trovasse costretto ad abbandonare la sfida, spogliato del suo prestigio; o, nella malaugurata alternativa di una sua ostinazione, potesse essere eliminato senza troppo rumore, magari quando la gente è in vacanza e un delitto dura lo spazio di una settimana: i funerali, l’ennesima denuncia dei "santuari" mafiosi e non ci si pensa più.
Ma il generale era un osso duro. Continuò a chiedere i poteri di coordinamento, battendosi contro l’immagine autoritaria che gli "amanti del diritto" volevano cucirgli addosso. Non era il nuovo prefetto Mori. E ogni suo passo era lì a dimostrarlo: il gesto, mai compiuto fino allora da alcun rappresentante del governo, di andare a parlare nelle scuole per invitare i giovani a ribellarsi alla mafia; il discorso sul potere (che è un sostantivo ma anche un verbo di libertà) tenuto ai maestri del lavoro il 1 maggio; l’incontro con gli operai dei cantieri navali o con i familiari dei tossicodipendenti ("vorrei che foste voi le mie forza dell’ordine"); il rapporto con i preti di frontiera; l’idea che per sconfiggere la mafia si dovessero trasformare in diritti dei cittadini quelli che la mafia concedeva loro sotto forma di favori. Non era certo da lui che venivano i rischi di una sospensione della democrazia. Piuttosto, come disse a Saverio Lodato per l’Unità, sentiva la responsabilità di operare "nella trincea più avanzata della democrazia italiana".
Era un osso duro. Continuò a lottare contro il tentativo di umiliarlo e di isolarlo. Gettò il peso del prestigio nazionale conquistato durante la lotta al terrorismo nella tessitura e nella costruzione di alleanze inedite. Era orgoglioso, non si sarebbe arreso mai. Vissi in famiglia accanto a lui, giorno per giorno, più di due settimane nell’agosto che portava diritti a quel 3 settembre. Purtroppo e per fortuna. "Purtroppo" perché ne misurai la sofferenza, l’amarezza infinita. E perché scoprii, più che leggendo cento trattati di politologia, che cosa fosse il potere democratico, almeno in questo paese. Vidi come un sistema politico, uno Stato, -gli stessi per difendere i quali lui aveva vissuto per anni come un latitante- potessero lasciare alla fine al suo destino l’uomo che rappresentava la Repubblica nella lotta contro il suo nemico più sanguinario. "Per fortuna", invece, perché mi illudo ancora oggi di essere riuscito, in famiglia, ad alleviargli un poco quella sofferenza. E perché, parallelamente alla scoperta del potere, ebbi una insuperabile lezione di vita, vedendo quanto grande, quanto irriducibile possa essere la forza di un giusto che attinge ai suoi princìpi e ai suoi valori (al suo "credo", avrebbe detto) di fronte al destino che si annuncia. Ogni giorno era lungo, infinitamente lungo. Telefonate che non arrivavano, speranze che si accendevano, notizie di nuovi morti, frasi ambigue o impotenti, amici che ascoltavano e aiutavano, amici che si defilavano. La rivelazione, soprattutto, di quanto possa farsi sentire il silenzio del nocciolo duro del potere, quello antico, quello che sa e prevede e decide nell’ombra; di quanto sia assordante il suo silenzio anche quando senti le voci degli studenti, dei sindaci dei piccoli centri, degli opinionisti, di un cardinale o perfino di un presidente della Repubblica.
Sembrava un leone ferito, mio padre. Costretto dalle sue stesse idee a non arrendersi, ad andare verso il destino annunciato. I cittadini onesti, ci sono i cittadini onesti che credono in quello che sto facendo, non li posso abbandonare. Voglio continuare a guardare in faccia i miei figli e i figli dei miei figli. E ogni giorno il tentativo di trovare il bandolo miracoloso per dare un senso compiuto a tutto.
Tutto invece era già scritto. Anche la celebre intervista a Giorgio Bocca, che diede a un tempo la misura della gravità della situazione e la forza della visione strategica del prefetto, rientrò alla fine in questo copione. Avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta nei tormentati rapporti con il governo e invece forse accelerò la decisione di arrivare alla fine. Non si arrendeva, il prefetto, e per giunta aveva idee chiare e moderne. Perciò gli fecero trovare altri due cadaveri davanti alla caserma dei carabinieri di Bagheria. Nel portabagagli di un’auto. Fu l’unica volta nella sua storia che la mafia volle annunciare con una telefonata a una redazione i propri progetti. "L’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, ripeto, quasi conclusa". Non si arrese nemmeno davanti a quell’annuncio. Come non si fece scrupoli di continuare a isolarlo il nocciolo duro del potere, il vecchio potere con le sue grandi radici al sud, quello che aveva segnato la storia d’Italia da Portella delle Ginestre alla trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo. Il sottosegretario agli interni, il democristiano Angelo Sanza, dichiarò indispettito al "Mondo" che per il governo dalla Chiesa era "un prefetto come gli altri". Mandato apposta in Sicilia il giorno dopo l’omicidio di Pio La Torre, con la pubblica promessa di farne il perno di un nuovo impegno dello Stato contro la mafia. Apertamente annunciato come prossima vittima del potere mafioso. Ma per il governo "un prefetto come gli altri". Uscì, quell’intervista, sul "Mondo" che andò in edicola con una data profetica: 3 settembre.
E il 3 settembre sera l’"operazione Carlo Alberto" fu conclusa nel centro di Palermo. In via Carini, alle 21,10. Un piccolo esercito in armi lo aveva atteso indisturbato fuori dalla prefettura. Lo uccisero su una A112 con Emmanuela Setti Carraro, la giovane crocerossina che aveva appena sposato in seconde nozze. L’agente di scorta Domenico Russo, che coraggiosamente scese dall’auto di scorta e cercò di contrastare da solo i kalashnikov mafiosi, fu colpito anche lui a morte. Eppure nemmeno questo bastava. Bisognava liberarsi del generale morto al più presto. Ucciso la sera, la sua casa visitata abusivamente la notte stessa con la scusa di prendere le lenzuola per coprire i corpi, i funerali vennero preparati di corsa per il primo pomeriggio successivo. In fretta, con una fretta dannata, perché il delitto pesasse il meno possibile. Il copione del silenzio venne rotto dalla folla. Che dimostrò di essersi affezionata e di avere creduto nel "generale piemontese" e fischiò con rabbia tutte le autorità tranne Pertini, gridando a noi figli da fuori i finestrini dell’auto "non lo abbiamo ucciso noi siciliani, l’hanno ucciso a Roma". E venne rotto, il copione, anche dall’uomo di chiesa che volle celebrare i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo. Il quale nella sua omelia lanciò la storica accusa contro l’indolenza di uno Stato che si era attardato in parole e poi parole mentre la Palermo-Sagunto veniva espugnata dai suoi nemici. Alle otto della sera del 4 settembre, nemmeno ventiquattr’ore dopo la strage, i due corpi erano già arrivati a Milano. La Sicilia, quella parte di Sicilia che non l’aveva voluto, se n’era alfine liberata. Ma non per sempre. In suo nome prese il via un movimento di opinione che ne avrebbe riproposto a lungo i princìpi e le intuizioni. "Dalla Chiesa ce l’ha insegnato, fuori la mafia dallo Stato", iniziarono a scandire i giovani siciliani, ma anche quelli campani e calabresi. Fu, nella storia d’Italia, il primo generale preso a simbolo dai movimenti studenteschi.
Un generale anomalo. Carico di Risorgimento, di amor patrio, con i suoi "alamari cuciti sulla pelle", come gli piaceva ripetere. Amante dell’ordine e della legge. Ma anche partigiano nelle Marche; anche capace di fare valere la legge di fronte alla mafia forte di protezioni: per dare giustizia a Placido Rizzotto o per denunciare le complicità politiche a una ammutolita commissione parlamentare antimafia. Non certo comunista; e nemmeno di sinistra, anche se mai, neppure una sola volta, disse in famiglia per chi votava. Ma capace di incontrarsi con i comunisti nella difesa dello Stato. Quando la notizia del delitto giunse alla festa nazionale dell’"Unità" a Tirrenia, era in corso una serata dedicata proprio alla lotta alla mafia e alla figura di Pio La Torre, il dirigente comunista che tenacemente aveva sollecitato l’invio di mio padre a Palermo. Aveva la parola il direttore dell’"Unità" Emanuele Macaluso, che con il giornale aveva sostenuto il nuovo prefetto nei suoi cento giorni, capendo bene, per antica sapienza di lotte siciliane, lo spessore e la gravità di atti e silenzi. Fu Natta a un certo punto ad allungargli silenziosamente un foglio con la notizia della strage di via Carini. Macaluso stette zitto a lungo. Poi comunicò al pubblico quel che era accaduto. Anche al generale come a Pio La Torre. Una vera dichiarazione di onnipotenza da parte di Cosa Nostra. Poi, per brevi istanti, il direttore dell’Unità volle parlare dell’incontro che era avvenuto tra il generale e i comunisti. Di quell’incontro avvenuto due volte. La prima contro il terrorismo, la seconda contro la mafia. Era vero. Mio padre aveva apprezzato progressivamente nei comunisti la serietà, l’affidabilità della parola, il coraggio – anche – quando si trattava di difendere le istituzioni democratiche. Doti che per un militare figlio di militare erano dirimenti. E alle quali volle fare ricorso, sia quando ci fu da difendere le fabbriche dalla suggestione armata sia quando ci fu da stare nella "trincea più avanzata della democrazia italiana" a Palermo.
Un generale anomalo. Amatissimo dai suoi carabinieri, e spesso al centro, nell’Arma, di invidie e gelosie anche postume. Punto di riferimento obbligato nella memoria collettiva di quella terribile sfida che fu la lotta contro il terrorismo, simbolo dello Stato e della forza dello Stato, e tuttavia scomodo per via di quella sua fissazione della legge e della sua voglia di impersonarla davanti a chiunque. Uomo d’ordine e sovversivo al tempo stesso. Per questo a venticinque anni di distanza, anche ora che tanti suoi nemici non ci sono più o non esercitano più alcun potere, il suo nome è segno di contraddizione. E intorno alla sua memoria si avverte ancora, epidermicamente, l’imbarazzo, la convinzione che sia meglio – per evitare "grane" o rimbrotti – non dargli ospitalità, o ridargli la parola, o consentirgli di raccontare, anche indirettamente, la sua storia.
Nando
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