Le parole sono pietre. Anzi no (di Bossi e altro)

Vorrei vedere se… Vorrei vedere se la frase "bisognerà prendere i fucili" l’avesse pronunciata Diliberto. Oppure Giordano. O un qualunque esponente della sinistra radicale e massimalista. Di quelli che se stanno a un corteo dove viene insultato Bush, o dove cinque esagitati o imbecilli bruciano una bandiera americana, vengono immediatamente accusati di farsela con i terroristi, di non sapere che cos’è una democrazia. Additati alla pubblica vergogna. E assunti a prova provata che il governo Prodi è inaffidabile, perché prende i voti degli amici dei terroristi. Invece la frase l’ha detta l’Umberto Bossi, quello che se parla di fucili, di pallottole, di buttare il tricolore nel cesso, lo fa perché "le spara grosse", perché "lo sanno tutti che è fatto così". Il leader di un partito di una coalizione dice lui quelle cose, "prendere i fucili", in mezzo ai militanti plaudenti e galvanizzati, dalla tribuna della più importante manifestazione del partito, non a un bar, anche se a volte si può avere l’impressione che non ci sia poi molta differenza. E il massimo delle reazioni è che "bisogna moderare i toni della propaganda" o che "così non ci intendiamo". Per me resta uno dei misteri della politica italiana: perché ci sia un segretario di partito al quale, non in termini di codice penale ma in termini politici, è consentito dire di tutto. Come se godesse di un porto franco; come se, vorrei perfino dire, la secessione l’avesse già praticata sul piano del costume civile e delle norme di comportamento. C’è voluta una giovane deputata di An, la vicepresidente della Camera Meloni, per fare l’unico paragone giusto: quello con i celebri cattivi maestri degli anni settanta.

E poi vorrei vedere se…Vorrei vedere che cosa direbbero a una qualsiasi festa di partito i dirigenti politici che hanno voluto quel popo’ di primarie per il Partito democratico, con le liste ben bloccate. Vorrei vedere come replicherebbero a un qualsiasi cittadino che chiedesse loro perché non è stato lasciato libero di dare la propria preferenza. Come replicherebbero, soprattutto, dopo l’addio a Bruno Trentin, sindacalista e intellettuale con pochi pari. Cosa direbbero dopo averlo ringraziato per avere insegnato al mondo del lavoro e a tutta la sinistra una nuova idea di democrazia; con i consigli dei delegati, e con i delegati sindacali liberamente votati dai loro compagni e colleghi su scheda bianca, senza nemmeno l’indicazione della sigla di appartenenza. Le parole sono pietre. Anzi no. A seconda di chi le dice.

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