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Non roviniamo la Festa
(L’Unità, 28 agosto 2007) – Festa dell’Unità sì o Festa dell’Unità no? Che cosa sarebbe meglio per il Partito Democratico? Prima di rispondere, consegno alcune doverose premesse: a) vengo dalla Margherita; b) credo che il Partito Democratico debba esprimere una realtà politica nuova, non certo la somma di realtà preesistenti; c) penso che sia (oso ancora dire: sarebbe) un errore micidiale accompagnare le primarie per il leader nazionale con l’elezione spartitoria (tot ai Ds, tot alla Margherita) dei segretari regionali del nuovo partito; d) sono convinto che sia stata poco coerente con l’idea del Partito Democratico la scelta dei Ds di presentarsi alle primarie con un solo candidato per difendere la loro unità. Enunciate le premesse, do la mia risposta. E mi dichiaro favorevole, fortemente favorevole al mantenimento delle feste dell’Unità. E proverò a spiegare il perché.
Mi rendo conto, sia chiaro, dello spirito con cui alcuni intellettuali ulivisti ne hanno chiesto l’abolizione o la trasformazione in altro. Quella festa è una festa di partito, si argomenta. Ora che nasce un nuovo partito, mantenerla in vita significa continuare a coltivare una precedente identità, rifiutare di sciogliersi davvero nel nuovo progetto. Di più: specie in certi contesti regionali significa perseguire l’ambizione di una egemonia della precedente identità nel nuovo progetto. Una egemonia politica e organizzativa. Con tanti saluti all’idea di mescolarsi davvero in qualcosa di nuovo, di attrarre e fondersi con pezzi di società estranei alle ideologie del novecento. Preoccupazioni e motivazioni per nulla campate per aria. Io però, proprio partendo dalla concreta realtà delle feste dell’Unità, per come le ho conosciute e per come le ho vissute in questi ultimi decenni, vorrei proporre delle considerazioni che spostano (e alla fine ribaltano) i presupposti del ragionamento.
Siamo davvero sicuri, e quanto, che la Festa sia la festa dei Ds? Che la organizzino loro è certo. Che ci mettano le loro bandiere pure. Che il taglio politico complessivo sia coerente con le loro strategie, di nuovo pure. E’ anche certo che le esclusioni e inclusioni degli ospiti risentono di innamoramenti e orticarie tipicamente di partito. Così come è certo, infine, che essa venga solennemente chiusa da un discorso del segretario diessino davanti alla massa orgogliosa dei militanti. Non è poco, ci mancherebbe. Anzi, potrebbe bastare per rispondere con un lampo d’intesa: ragazzi non scherziamo, è la festa dei Ds. Eppure c’è qualcosa di più e di diverso, di cui è impossibile non tener conto. La festa infatti mescola culture, le fa incontrare in modo non formale, non diplomatico. Frulla ambienti, personalità, storie collettive, è luogo di confronto autentico e spontaneo di tutta la sinistra, direi di tutto il centrosinistra. Nel suo modo concreto di svolgersi perde quasi totalmente le stimmate di partito. A volte (e neanche sempre) ai dibattiti c’è solo una presenza a ricordare "dove si è", quella del moderatore. Ma poi assisti o partecipi a incontri in cui, su sei o sette relatori, di diessini ce n’è uno solo. E in cui spesso il pubblico applaude con più calore e convinzione relatori non appartenenti al partito ospite (intellettuali senza targa, ma anche esponenti di altri partiti). Nel tempo la mescolanza delle genti che si danno appuntamento alla Festa nazionale o della propria città, ha continuato anzi a crescere, a diventare sempre più palpabile. E questo per una ragione di cui va comunque dato atto agli organizzatori: la Festa è diventata il più grande evento politico-culturale dell’anno in tutto il paese. Non il più grande evento politico, non il più grande evento culturale. Ma sì il più grande evento politico-culturale, pur con quella quota di dibattiti un po’ improbabili e di pedaggi alle piccole vanità interne che la festa deve scontare. Voglio dire che non c’è occasione in Italia in cui cultura, politica, musica, divertimento, la stessa gastronomia si mescolino con tante offerte e con tale varietà di partecipazione. E siccome non ce n’è davvero altre di paragonabili, tutto il popolo del centrosinistra ha finito per farne progressivamente il proprio appuntamento, al di là della stessa volontà dei dirigenti diessini; i quali infatti ogni tanto registrano dissonanze anche imbarazzanti tra gli orientamenti dominanti nel partito e quelli espressi dal pubblico presente. Come dimenticare l’impulso che venne dalle feste a partecipare alla grande manifestazione di piazza San Giovanni indetta da Moretti e dai girotondi nel settembre del 2002? Mi spingo ancora più in là. E dirò che le feste dell’Unità, proprio per questa loro natura, hanno dato un potente contributo alla nascita vera dello spirito dell’Ulivo, più che ostacolarla in nome di una separatezza di partito. Nel clima irripetibile della Festa, di quella Festa, mi è capitato più volte di firmare grembiuli o poster o fazzoletti di volontari e di trovarvi sopra le firme di altri ospiti, diessini e non, a testimonianza di quanto sia ampio lo spettro della rappresentanza ideale che quel popolo coltiva. Anche per questo l’appuntamento attrae tanti e tanti giovani che mai si vedono, che mai ci si può sognare di trovare negli altri appuntamenti politici.
Perché dunque chiudere con questa festa, con questo marchio? Essi appartengono a tutto un popolo, a cui proprio il Partito Democratico non può toglierlo con un atto burocratico. Sarebbe un po’ (e chiedo scusa per la impropria caduta aziendalista) come se un marchio radicato nella storia della cultura, delle tradizioni e dei gusti venisse cambiato perché cambia l’azionista di maggioranza. E sarebbe anche un’ingiustizia verso quelle decine di migliaia di volontari, irreperibili in qualsiasi altra esperienza politica, che a questa festa hanno dato la propria generosità, vivendola al tempo stesso come la festa del proprio partito e la festa di tutti. Si è detto spesso che il Partito Democratico non dovrà, costruendo una storia nuova, liquidare le sue radici. Ecco, questa Festa è probabilmente uno dei più grandi patrimoni del passato che il Partito Democratico si troverà tra le mani. Lo affidi a chi è in grado di interpretare al meglio la nuova identità, lo emancipi da qualche ostruzionismo illiberale, ne consegni il momento conclusivo (ovviamente) al leader del nuovo partito. Quando i volontari e quel clima umano e politico non ci saranno più, avrà un senso storico cambiargli il nome. Per ora la Festa è soprattutto una risorsa. A tarpare le ali al nuovo partito sono semmai – come sanno bene gli stessi intellettuali ulivisti – gli accordi tra le segreterie uscenti, l’idea di costruire un partito teleguidato, il sogno di farlo nascere dentro una grande glaciazione di equilibri personali, i ticket decisi a tavolino, i segretari regionali spartiti a percentuali. Sarebbe una beffa se alla fine dovessimo scoprire di trovarci tra i piedi tutti i vizi correntizi sani e pimpanti e per converso, come prezzo per avere vanamente tentato di esorcizzarli, di trovarci senza la festa dell’Unità. Perché invece, ecco l’idea, non chiedere aiuto proprio alle feste dell’Unità e al loro popolo, plurale e appassionato, per fare nascere bene il Partito Democratico? Perché non mettere lì, per esempio, dei bei banchetti, non organizzarci delle belle iniziative contro la fregola di una spartizione Ds-Margherita prossima ventura? Il popolo della Festa ne sarebbe capace…
Nando
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