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Ma io dico: tolleranza dieci
(L’Unità, 2 settembre 2007) – Sapete che c’è? Che di questa tolleranza zero non se ne può più. Della formula magica, dello scongiuro, dell’esorcismo. Del suo significato, dei totem mentali che evoca. Se posso esprimere la mia modesta opinione, vorrei tessere invece le lodi più sperticate della tolleranza dieci. Sissignori. Tolleranza dieci. O quindici, o venti, secondo i casi. Anzitutto perché sono contro la tolleranza cento, o novanta. Quella, per intendersi, che vige in Italia verso tanti fenomeni di illegalità. Per esempio quella invalsa per anni davanti ai clan di Scampia, finché non si mossero tutti insieme il ministro dell’Interno, il presidente della Repubblica e la commissione antimafia. O quella che vige per lunghi periodi davanti alla mafia o la ‘ndrangheta se non vengono commessi stragi o omicidi "eccellenti". O quella osservata per intere legislature nei confronti dell’evasione fiscale o delle devastazioni ambientali. O, scendendo di piano, quella praticata di fronte alla trasformazione di alcune nostre città o aree urbane in autentici suk. O all’illegalità dal basso che diventa principio alternativo di autoregolazione sociale. Non voglio alcuna tolleranza cento o novanta, a nessun livello. Non mi piace mai, per chiarirsi, ciò che è abusivo. Perché una società che si assuefa all’abusivismo perde il senso dei confini tra diritto e prepotenza. Perché accettando la piccola illegalità per "spirito di tolleranza", si promettono ospitalità e impunità crescenti a illegalità sempre nuove e a chi le sfrutta. E si abbassa la qualità civile del vivere quotidiano; che non è mai una buona premessa per educare a un decente spirito pubblico le nuove generazioni. E infatti, per restare ai temi di cui si discute in questi giorni, credo che se in Italia, unica nell’Europa occidentale, è cresciuto – in tante forme – un accattonaggio così diffuso, questo non è avvenuto (o non è avvenuto principalmente) perché abbiamo la cultura cattolica dell’accoglienza o perché c’è una forte influenza della cultura solidale della sinistra. Ma semplicemente perché la nostra è una civiltà mirabilmente cialtrona, che non ha il senso di quei confini e ha un basso spirito pubblico. Prova ne sia che l’accattonaggio e i suk si sono sviluppati, eccome, anche a Milano, ossia nella prima città italiana che, volendo adottare la parola d’ordine di Rudolph Giuliani sindaco di New York, ha sposato l’ideologia della tolleranza zero, facendone una specie di dea protettrice, sorta di nuova "madonnina" laica.
Il che mi aiuta a spiegare perché ripudio oltre la (mai decantata ma praticatissima) tolleranza cento anche la (decantatissima) tolleranza zero. Quale può essere infatti l’efficacia di questa ricetta nel nostro contesto? Presto detto. Siccome siamo cialtroni, discontinui, abituati a funzionare solo nelle emergenze; siccome abbiamo nel nostro dna di governo non il "rigore democratico" bensì il "lassismo autoritario", da noi ogni invocazione di tolleranza zero si traduce in una breve tornata di intolleranza repressiva, nella iniezione nel corpo sociale di una elevata ostilità verso qualche categoria sociale (sempre debole), e poi nella ripresa in grande stile dei suk e degli stessi fenomeni di illegalità diffusa che si è promesso con grida manzoniane di debellare. Risultato? Il fenomeno resta. E in aggiunta ci ritroviamo più rancorosi e meno aperti culturalmente. E’ come prendere una medicina tossica che non ci guarisce. Che lascia in circolo solo il veleno. Insomma, la formula magica gonfia i muscoli, riscuote consensi, ma è un po’ come se drogasse la cultura pubblica, il senso civico diffuso.
C’è poi una seconda ragione che la rende indigesta. Ed è che essa viene costantemente e selettivamente rivolta solo verso i più deboli. A volte partendo da ragioni reali, che meritano ogni attenzione. Ma sempre lasciando, insopprimibile, il disagio di vedere che è sempre verso gli ultimi, mai verso i forti, che si diventa -vedi come le parole si richiamano- ultimativi. Sempre lasciando la sensazione agra di avere costituito quasi una comunità di maramaldi.
E infine c’è una terza ragione, perfino più profonda, di diffidenza verso la formula magica newyorkese. E sta tutta nel principio di ragionevolezza che -giustamente- chiamiamo ogni giorno a governare le nostre relazioni sociali. Anche quando vogliamo intervenire contro l’illegalità diffusa, non sarebbe cioè male ricordare che, in fondo, ogni relazione di cui si intesse la nostra vita si costruisce su un certo grado di tolleranza. A partire da un convenzionale minimo di dieci, appunto. Che è poi la modicissima quantità che praticano, consapevolmente o meno, i più intransigenti. Dalla vita coniugale e di condominio su su fino a quella delle nazioni. Per ragioni di quieto vivere, nobili e meno nobili. Per comprensione innata del valore delle differenze. Per spirito di adattamento reciproco. Per la consapevolezza che è utile capire e "assorbire" le ragioni dell’altro. Per la necessità di transigere se si vogliono garantire accettabili equilibri di convivenza a ogni livello. La vita sociale è insomma una infinita sequenza di mediazioni. Che fa sì che anche per i comportamenti che condanniamo fermamente ci sia una riserva fisiologica di comprensione. A volte sollecitata dagli stessi protagonisti (non deboli) di quei comportamenti. Forse che anche gli avversari più incalliti dell’evasione fiscale non sono disposti ad accettare che ci possano essere, nei conteggi aziendali, errori in una misura plausibile (facciamo il dieci per cento?) o che uno o due scontrini evasi non valgano a far chiudere un negozio? Forse che anche chi è contro l’abusivismo edilizio non è disposto ad accettare intorno a sé una piccola violazione delle regole, una veranda, un ripostiglio, perfino una baracca, purché non sconvolgano le armonie o il paesaggio? Quanto tolleriamo di ciò che è illegale, villano, diseducativo, cercando di stabilire un ponte, un’intesa, con i bisogni o le abitudini dell’altro? Come rielaboriamo le nostre visioni di ciò che è giusto o ingiusto, tollerabile o intollerabile, in base alle culture circostanti? O, passando alle grandi arene della vita pubblica, non si accetta forse, per amore di quiete politica, di pace sociale, che diventi capo del governo chi, in base alle leggi della Repubblica, sarebbe semplicemente ineleggibile? Non si transige perfino sui diritti umani per coltivare le relazioni internazionali? Non si cerca (anche troppo, altro che tolleranza dieci…) di "capire la cause" della evasione fiscale, della raccomandazione, della violenza negli stadi, perfino della mafia che dà i posti di lavoro e fornisce dei modelli di successo?
Anche le persone più rigorose e severe sanno che la tolleranza zero fa perdere di vista le complessità sociali, la ragionevolezza, la stessa efficacia delle proprie strategie, impedisce di costruire soluzioni proficue dei conflitti. Che è cioè merce per persone poco intelligenti. Quale è dunque la ragione che ci porta a precluderci questa quota di tolleranza, modica ma essenziale alla funzionalità del sistema, verso alcune categorie sociali? Perché a loro, e solo a loro, non si applicano i canoni di comportamento che sono la fisiologia della nostra società? Ci sono due spiegazioni possibili. Che non si escludono tra loro. Perché consideriamoqueste categorie fuori dalla nostra società. Perché queste categorie non votano. E solo a dirlo passa un brivido per la schiena…
Nando
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