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Replica a Cossiga. Lettera al Corriere della Sera
Caro Direttore,
nella sua lettera di ieri al Corriere l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, dando la propria personale versione del ruolo da lui avuto nella vicenda di Marco Donat Cattin, mi tira inopinatamente in ballo. Ricordando la sua "antica e strettissima amicizia" con mio padre, e aggiungendo che quest’ultimo "si lamentava con parole addolorate e aspre del figlio movimentista", mi invita a "non interloquire" perché (testuale) "di cazzate sul padre ne ha già dette abbastanza anche in questi giorni". Un improviso lampo di chiarezza in una prosa oscura e macchinosa. Be’, io invece interloquisco eccome. Perché l’uso reiterato di parole dette o di cose fatte dai morti, ma che hanno come unica prova la propria privatissima memoria, non può spingersi fino a deformare la realtà e a offendere i sentimenti più sacri delle persone. Nel caso specifico, perché dovrei dire il contrario?, mio padre non era certo entusiasta delle mie idee politiche. Ma ciò non gli impedì -proprio per il rispetto e l’amore che sempre ebbe per i giovani- di volere dialogare, capire. E le nostre divergenze di idee si espressero sempre secondo il più classico canone del confronto generazionale, mai incrinando lo spirito di una famiglia profondamente unita. Quello che mio padre pensava di me lo dicono, molto più credibilmente di Francesco Cossiga, i suoi diari, del tutto genuini e cristallini, perché scritti sotto forma di lettere immaginarie a mia madre morta. Non trascrivo nemmeno, qui, quei giudizi per non sporcare l’amore di un padre per un figlio con una polemica di conio tanto volgare. E’ sufficiente ricordare che al mio primo figlio, nato nel ’78, ossia negli anni a cui Cossiga fa riferimento, venne dato il nome di Carlo Alberto. E ricordo bene, io sì ricordo bene, la felicità e l’orgoglio di mio padre quando ebbe la notizia.
Quanto alla "antica e strettissima amicizia" dell’ex presidente con il generale dell’antiterrorismo, non c’è dubbio che Cossiga ne abbia date ripetute dimostrazioni. Per esempio inventando la panzana che dall’elenco della P2 sia stata stracciata ad arte una pagina, quella con l’iscrizione di mio padre, al fine di "salvarlo" (chi la stracciò? I giudici Colombo e Turone? La P2 che avrebbe avuto tutto l’interesse ad annoverarlo tra i suoi adepti?). Oppure, come fa nella stessa lettera di ieri, sottraendo il merito del "pentimento" di Peci a mio padre per darlo ai servizi segreti dell’epoca; andando contro la testimonianza dello stesso Peci e il fatto incontestabile che mio padre volle evitare invece in ogni modo che la vicenda venisse gestita dai servizi.
Un’ultima osservazione vorrei fare, che appare formale ma che per me, forse per l’educazione che ho ricevuto, ha un valore profondo e sostanziale. Ma se un ex presidente della Repubblica (per quanto uscito da tale ruolo con poco luminose dimissioni) usa per iscritto certi termini sul più istituzionale dei quotidiani italiani, quale linguaggio si sentiranno autorizzati a usare nelle loro scuole i ragazzini di Quarto Oggiaro o dei Quartieri Spagnoli? Alla fine, in questo cerchio che ha motivazioni per me inesplorabili, dall’uso dei morti all’offesa ai sentimenti all’esemplarità del linguaggio, tutto si tiene.
Cordiali saluti, Nando dalla Chiesa
9 settembre 2007
Il testo dell’intervista al senatore a vita pubblicata dal Corriere della Sera il 7 settembre
Il testo della lettera dell’8 settembre (prima parte – seconda parte)
Nando
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