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Il ricordo. Gigi Meroni, quella meravigliosa farfalla granata simbolo del Sessantotto in arrivo
(l’Unità, 13 ottobre 2007) – Fosse vivo farebbe il pittore. O forse lo stilista. Comunque l’artista. Di sicuro non farebbe il procuratore. E nemmeno il commentatore televisivo. E neppure l’osservatore. Al massimo si dedicherebbe ai pulcini, ai bambini che sognano la maglia della nazionale; per divertirli e divertirsi. Gigi Meroni, il più eccentrico e poetico dei campioni che hanno attraversato la storia del calcio italiano, morì quarant’anni fa ucciso da un’auto mentre attraversava una strada nel centro di Torino. Un incidente che sembrò architettato da un destino stregato e calcolatore, visto che si servì di un giovane tifoso al volante che teneva nella propria camera da letto il poster del campione e portava i capelli come lui. Un giovane tifoso che, ecco la vertigine, molti anni dopo sarebbe diventato presidente del Torino, sì, la squadra di quel calciatore geniale e inquieto che sul campo volava con movenze di farfalla.
Aveva 24 anni, il ragazzo con la maglia numero sette. La notizia della sua morte colpì il sentimento degli adolescenti degli anni sessanta, che ne avevano fatto il loro idolo. Avrebbero voluto vederlo in campo con i colori del cuore i giovanissimi della borghesia interista come gli scugnizzi dei "bassi" napoletani. Per come giocava, per il senso di libertà che sprigionava con il pallone al piede. Ma anche per come viveva, infrangendo una dopo l’altra le convenzioni dei tempi, dai capelli all’abbigliamento fino alla convivenza con una donna sposata, Cristiana, la compagna della sua brevissima vita.
Meroni fu il simbolo dell’ondata antiautoritaria e libertaria che percorreva il mondo. Anzi, l’unico simbolo negli stadi, nel mondo del calcio dove i giocatori si compravano e si vendevano come cose e dove era possibile imporre loro il taglio dei baffi o le fidanzate da frequentare. Unico simbolo del sessantotto in arrivo nello sport più popolare, mentre la musica inventava emozioni di libertà senza sosta. Poi il suo nome parve scomparire sotto le polveri dell’oblio. Le memorie calcistiche si affollarono di nuovi eroi e di nuove imprese collettive. La grande nazionale messicana di Gigi Riva e di Bobo Boninsegna. E poi i trionfi mondiali dell’82. E Baggio e Maradona, in modi assai diversi poeti pure loro. Finché una decina d’anni fa si ricominciò d’incanto a parlare della farfalla granata. E allora un’intera generazione scoprì di averla tenuta dentro il cuore. E provò d’improvviso una nostalgia intenerita per il folletto-beatle degli stadi e, in fondo, per la propria adolescenza, che in lui aveva trovato uno dei simboli di cui con il tempo non avrebbe dovuto vergognarsi. Di cui anzi avrebbe potuto raccontare la storia a chi non l’aveva conosciuto (come è capitato a me appena due sere fa) con la certezza di accendere e affascinare la fantasia dei giovani ascoltatori, tarpata e offesa dal grigiore senza fine delle finzioni televisive.
Oggi e domani "il Gigi", come ancora lo chiamano i tanti fedeli amici che ha lasciato tra Como, dove nacque, e Genova e Torino, dove giocò, lo ricorderanno. Domani sera la sua malinconica storia verrà perfino portata in teatro all’Ariberto di Milano. Ma essendosi svolta, quella storia, in gran parte sui campi di calcio, sarà praticamente impossibile a qualsiasi regista restituirne per intero la poesia. Le volate, il dribbling, i pallonetti a rientrare, come quello che stese a San Siro l’intera difesa dell’Inter mondiale, le corse in diagonale, le invenzioni irripetibili. Cose che anche altri campioni ci hanno regalato. Ma che nessuno, almeno in Italia, e forse con la parziale eccezione di Roby Baggio, ha saputo fondere con la poesia semplice e fiera, e sempre grandissima, della libertà, anche nell’amore. Per questo quando mi chiedono chi sia il nuovo Meroni la mia risposta è sempre la stessa: non esiste e chissà se esisterà mai.
Nando
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