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Il capo dei capi. A MASTELLA DICO: NIENTE CENSURE
(l’Unità, 28 novembre 2007) – A rimortis. Confermo qui il solenne impegno a non criticare pubblicamente alcun atto del mio governo. Ma la proposta del ministro della Giustizia Clemente Mastella di chiudere anzitempo la fiction sul “Capo dei capi” non è atto di governo. E’ un’opinione che solleva un dibattito culturale, civile e politico. Al termine del quale potrebbe anche esserci un atto di governo volto a censurare la fiction. Un atto che sarebbe di censura politica. Ossia un atto gravissimo, un precedente dalle implicazioni incalcolabili. E dunque voglio qui misurarmi proprio con le opinioni del ministro. Liberamente e responsabilmente. Spero che mi si crederà se dico che non ho alcuna simpatia per ciò che dall’Ottocento in poi, in letteratura, in antropologia, nel teatro, nel cinema, in televisione, è servito a legittimare la cultura mafiosa e i suoi protagonisti, a circondarli di un alone di normalità, di simpatia o perfino di fascino. Ecco, credo che la fiction di cui viene oggi chiesta la soppressione non abbia proprio nulla a che fare né con il folclore corrivo del Pitré né con la grande saga del “Padrino”. Dirò anzi di più: di avere provato anch’io qualche perplessità iniziale sulla scelta di dedicare una sequenza di spettacolari serate a Totò Riina e ai corleonesi, ossia a personaggi vivi e suscettibili di incarnare un mito agli occhi più sprovveduti. Ma la realizzazione narrativa ha fatto piazza pulita dei miei dubbi e dei miei timori. E sarebbe ben strano che così non fosse stato scorrendo i nomi di chi ci ha lavorato, a partire da Claudio Fava. Che delle simpatie e delle complicità verso i mafiosi ne sa – come me – qualcosa per esperienza molto diretta.
Qual è il problema sollevato dal ministro e non solo da lui? Che in qualche landa della Sicilia ci sono ragazzi che scorgono in Riina e Provenzano i loro modelli di riferimento? Che in qualche angolo d’Italia c’è chi può fare il tifo per loro? Ebbene, lo confermo. Il problema c’è. Ma non nasce, questa è la scomoda verità, dalla fiction. Nasce da chi la guarda, dagli spettatori. Loro, non altri, sono il problema. Se davanti alla tivù ci sono cittadini “neutri” o predisposti a giustificare il crimine e la violenza, giovani che per varie vie hanno maturato una cultura congeniale al “messaggio” mafioso, essi saranno attratti, anche inconfessabilmente, dalle gesta criminali dei corleonesi. Se invece davanti alla tivù ci sono cittadini o ragazzi dotati di una minima sensibilità umana e civile, quella minima sensibilità che ogni paese democratico dovrebbe sapere assicurare alla quasi totalità dei suoi membri, allora le imprese dei corleonesi saranno le gesta di un pugno di criminali, rappresenteranno un’epica sanguinaria e ributtante. E’ da questo fatto elementare che bisogna partire. Ed è rispetto a questo, semmai, che vanno misurate le responsabilità del nostro sistema televisivo. Perché (vogliamo dircelo?) occorrono alcune condizioni affinché uno spettatore si trovi nella predisposizione psicologica di tifare, anche in modo latente, per un boss mafioso. Occorre, anzitutto, che per lui la vita e la morte siano eventi o concetti superficiali, intercambiabili; ludici perfino, come in un videogioco. E la nostra televisione questo gli ha insegnato. Il delitto come gioco, come rappresentazione da intrattenimento, con i plastici dei luoghi in cui si è ucciso e una compagnia di attori – psicologi, magistrati, giornalisti, ma alla fine tutti attori – che ne chiacchierano amabilmente come in un salotto.
Occorre poi che egli abbia realizzato una certa assuefazione alla violenza, si sia abituato a considerarla parte ovvia, nel senso di “moralmente ovvia”, della realtà quotidiana. Che abbia interiorizzato le sue proiezioni immaginarie, i suoi bellicismi, i suoi linguaggi, le sue autogiustificazioni. E questo la nostra televisione gli ha insegnato. Decenni di dibattiti calcistici (e non solo) gestiti e animati da invasati pronti all’urlo e all’invettiva, da applauditissime e richiestissime figure di “opinionisti” intenti a giustificare e talvolta a un pelo dall’istigare alle violenze più sconsiderate. Occorre, ancora, che quello spettatore abbia coltivato dentro di sé, giorno dopo giorno, i miti del potere e soprattutto del denaro e del successo facile. A qualsiasi costo. Dall’evasione fiscale alla prostituzione (magari su consiglio materno) in cambio di una comparsata da velina.
E questi miti la nostra televisione ha egregiamente contribuito a coltivare, iniettando nel sangue della società teledipendente – non solo nelle case benestanti e libere dal bisogno ma anche nei vicoli dell’ignoranza e della disperazione – la convinzione che ci si possa arricchire facilmente rimuovendo ogni ostacolo di troppo. Costruendo l’idea della “società desiderabile” intorno a un ristretto gruppo di figure pubbliche (in quanto televisive) baciate dalla fortuna del fisico e/o trascinate al successo dalla loro spregiudicatezza. Occorre ancora altro per avere il nostro spettatore ben predisposto? Certo. Occorre anche, e infine, che egli abbia sviluppato una neutralità verso il senso della legge, o addirittura una avversione nei confronti delle regole e di chi, con una divisa o con una toga addosso, cerca di farle rispettare. E la televisione, che pure ha realizzato cose buone per ricordare alcuni rappresentanti dello Stato o per promuovere un’idea positiva dei poliziotti e dei carabinieri, si è spalancata per anni come una voragine per ospitare gli attacchi più violenti e ossessivi contro i giudici e le forze dell’ordine. Attacchi senza contraddittorio da parte dei condannati di giornata, attacchi a reti unificate da parte di inquisiti eccellenti, accuse a tonnellate in dibattiti teleguidati con i criteri di utilità politica che ci sono stati anche documentati recentemente. Eccolo dunque completato l’apprendistato “civile” del nostro spettatore. Ed è lui che si mette a vedere “Il capo dei capi” accanto al cittadino democratico, come un atleta che venga allenato e massaggiato abilmente fino al momento di scendere in campo.
Domanda: su che cosa bisogna intervenire, dunque? Sulla televisione che prepara e predispone lo spettatore complice o sulla fiction che tanto fiction non è ma racconta i fatti crudi e per alcuni delitti evoca perfino scenari politicamente imbarazzanti, non i soliti santuari “al di sopra di ogni sospetto” ma Riina che fa uccidere un prefetto per fare un favore a un politico romano? Una fiction che forse potrebbe riservare prima della fine ancora qualche dialogo bruciante sugli ultimi anni onnipotenti di Totò Riina?
La censura è sempre pessima cosa. Se fosse andata in onda una sequela di falsi clamorosi, ancora ancora avrebbe senso prendere in considerazione l’ipotesi. Per concludere che sarebbe comunque meglio evitarla. Ma qui, purtroppo, mentre i falsi vanno in onda tranquillamente da anni, sono le verità scomode che vengono accusate di fare il gioco della mafia. Già lascia uno strano sapore
Pavlov
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