Il libro. PROFESSIONE SBIRRO

(l’Unità, 7 gennaio 2008) – "Sbirri". Non so chi abbia avuto l’idea di farlo questo libro, edito da poco dalla Rizzoli. Ma è stata una grande idea. L’hanno realizzato cinque giornalisti che mettono spesso le mani nella materia, forze dell’ordine e lotta al crimine. I quali hanno scritto un reportage coinvolgente, schietto, appassionato. Raccontando che cosa sono e soprattutto che cosa possono essere oggi gli uomini e le donne in divisa; quelli che se la sfangano ogni giorno con i problemi più ruvidi e con le insorgenze sconosciute della società opulenta in lotta con le sue contraddizioni. E’ un libro che dovrebbero leggere tutti coloro che hanno delle responsabilità pubbliche. Coloro che parlano di sicurezza, e coloro che la devono garantire muovendosi ai piani alti delle gerarchie. Coloro che coltivano (a volte con ragioni maledettamente servite su piatti d’argento) antichi pregiudizi verso polizia e carabinieri.


Ognuno dei cinque giornalisti-autori narra la storia di un protagonista, che è però sempre spicchio e sintesi di una storia collettiva. Francesco la Licata racconta Peppe Linares, capo della squadra mobile di Trapani, impegnato in primissima fila nella lotta alla mafia di Matteo Messina Denaro e non solo. Massimo Numa racconta Marco Basile, capo della sezione omicidi della squadra mobile di Torino. Elisabetta Rosaspina filma il lavoro e la vita di Giuseppina Menna, vicequestore, polizia scientifica di Milano. Guido Olimpio fa da narratore per un (comprensibilmente) anonimo sottufficiale dei carabinieri impegnato nella lotta al terrorismo. Mentre Mario Portanova ripercorre la lunga parabola dell’ispettore Antonio Lippielli, quarto reparto mobile di stanza a Napoli (volgarmente: "celerino"). Il rischio di queste operazioni editoriali a più mani è lo sfrangiamento della materia, soprattutto quando di capitolo in capitolo cambia il nome del protagonista. L’effetto finale invece è esattamente quello che, nelle sue letture dantesche, Roberto Benigni assegna a ogni vero libro: turbare il lettore, nel senso più profondo del termine. Sì, il libro turba. E tanto. E non perché riproponga provocazioni di sapore pasoliniano, per carità, di cui si trova solo una rapidissima eco nella storia in fondo più appropriata, quella dell’ispettore "celerino". Ma perché ci consegna un’immagine capovolta delle nostre forze dell’ordine. Ma quali poliziotti o "caramba" da guardare magari con gratitudine però sempre immaginandoli un passo indietro rispetto alla cultura media; certo più alfabetizzati di una volta, non più protagonisti "naturali" di centinaia di barzellette ma sempre in affanno di fronte ai cambiamenti sociali… Ma quale "braccio esecutivo" del governo… Ci si trova davanti ad autentici professionisti che, anziché stare dietro di noi, stanno spesso avanti. Un passo, due passi avanti. Non perché siano portatori di specialissime qualità, ma perché è quel che fanno – se lo fanno con passione e serietà – che li porta prima di noi a contatto con ogni cambiamento sociale, specialmente con gli aspetti più inquietanti, talora con gli abissi, di ogni trasformazione. La tratta degli esseri umani, la prostituzione nigeriana o slava, gli affari della mafia, lo scatenamento del tifo calcistico, le correnti sotterranee della violenza, l’emarginazione, i mondi separati, i campi nomadi, la solitudine degli anziani, la progressione esponenziale delle truffe, le reti di copertura del terrorismo islamico. Non c’è altra professione costretta a misurarsi in tempo reale e con tale estensione con la qualità drammatica di questi problemi. Che i giornalisti possono certo -e meritoriamente- raccontare. Ma che gli "sbirri" devono affrontare. Con i rischi che segnano i giorni e le notti, con le sequenze di episodi sconvolgenti da trattare freddamente, con i risvolti umani da gestire, si tratti del bimbo denutrito della famiglia che occupa abusivamente la casa popolare o dei parenti della prostituta rumena uccisa rintracciati faticosamente al paese natio. E in più, ogni tanto, le umiliazioni che vengono da chi, sopra di loro, non ha lo stesso slancio ideale o pensa meno di loro che la legge debba essere uguale per tutti.

Non è certo, il loro, il mondo luminoso dipinto nei più fortunati serial televisivi. Ma c’è qualcosa che rimanda a quei serial. La consapevolezza di avere un ruolo sociale preciso. La padronanza delle tecnologie più sofisticate congiunta con una sensibilità per l’umanità dolente con cui si è spesso costretti ad avere a che fare. "Arriviamo noi prima dei sociologi e degli psicologi" dice uno dei protagonisti. Per dire non solo che loro vedono prima di tutti anche il più piccolo cambiamento nelle rotte della droga, il primo arrivo di una nuova etnia in città. Ma anche che devono sfoderare, talora inventarsi, in situazioni fin lì impreviste, le stesse competenze richieste agli piscologi e agli assistenti sociali.

Chi nei decenni passati non si è fatto risucchiare dal pregiudizio sa bene che contro la criminalità organizzata e contro il terrorismo magistrati e forze dell’ordine hanno spesso avuto una marcia in più nell’analisi e nella comprensione dei fenomeni. Sa che i saggi storici e sociologici hanno dovuto attingere a piene mani agli atti giudiziari e investigativi. Quel che il libro ci dice però è che questo ruolo di frontiera si è allargato, che copre sempre più spazi sensibili della nostra società. E che i grandi mutamenti intervenuti negli apparati della sicurezza non sono solo legati ai processi, pur importanti, di sindacalizzazione. Ma che c’è dietro una nuova domanda di legalità, di trasparenza, che si è fatta strada nelle nuove generazioni dell’ultimo ventennio. Esemplare la vicenda di Peppe Linares, giunto diritto in polizia dalle manifestazioni studentesche antimafia degli anni ottanta, quando a Trapani c’era ancora Ninni Cassarà, trasferito a Palermo per avere fatto irruzione nel Circolo dei nobili mentre vi si giocava d’azzardo, presente la moglie del questore. Dice, il libro, che c’è una autentica densità culturale dietro questi cambiamenti di stile e di vocazione. Affascina e intenerisce addirittura il sogno che Giuseppina Menna, tra un’indagine e un’altra su dna e reperti organici, confessa a Elisabetta Rosaspina: conoscere Claudio Magris. Fino a essersi concessa un piccolo viaggio a Trieste alla ricerca dei luoghi del grande scrittore, con la lontanissima speranza di trovarlo intento a scrivere in uno dei caffè della tradizione austroungarica.

Davvero si apre uno squarcio sorprendente su un mondo di nuovi protagonisti. Che spiegano perché non cambierebbero mai il proprio lavoro. Non certo, come molti loro predecessori, perché non avrebbero alternative. Ma per passione purissima. Per orgoglio del proprio ruolo. O per il piacere della sfida quotidiana, con gli altri e con se stessi. Che spiegano perché vogliono continuare a dispetto di stipendi bassi e comunque mai generosi; stipendi che colletti bianchi con la loro anzianità e il loro titolo di studio prendono senza affrontare né rischi né tensioni, senza dovere saltare le notti e le domeniche per qualsiasi imprevisto.

Turba, il libro; che appare quasi una "Casta" al contrario. Tanto che ti chiedi se una parte del paese, nel suo anarchismo selvaggio sempre pronto a reclamare "ordine", meriti davvero di avere al suo servizio questi professionisti. O se se li meriti, di contro, un’altra parte del paese, quella che li chiama "sbirri" per davvero tutti i giorni. Ma ti chiedi pure, malinconicamente, se uomini e donne così meritino di avere colleghi che gettano fango sulla loro stessa divisa come fu a Genova alla Diaz. In ogni caso, sia detto ad alta voce, per fortuna che ci sono. Per fortuna la nostra sicurezza è anche e forse soprattutto in queste mani.

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