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Il Papa e la politica. IL SENSO DELLA MISURA
(l’Unità, 22 gennaio 2008) – E così sull’Angelus di domenica è scoppiata la guerra delle cifre e delle smentite. Proprio come sulle migliori manifestazioni politiche e sindacali. Logica conclusione di una giornata politica e per tanti aspetti surreale. Una domenica "per difendere il diritto di parola del papa". Che partiva dal teorema che qualcuno avesse impedito al papa di parlare. Teorema già smentito ieri, a piazza svuotata, dagli stessi organizzatori. Vogliamo dunque ricordare i fatti, i puri fatti?
Il rettore della Sapienza aveva invitato Benedetto XVI a partecipare all’inaugurazione dell’anno accademico. Scelta che si può considerare, a seconda dei punti di vista (entrambi legittimi), felice o poco opportuna. L’1,5 per cento dei docenti della Sapienza, alcuni certo di grande prestigio accademico, aveva ritenuto di dichiararla inopportuna al rettore in una lettera scritta molte settimane fa. Non è l’occasione appropriata, avevano detto.
Questo significa che si è voluto impedire o che – in assoluto – "si vuole impedire al papa di parlare"? O forse il limite delle circostanze di tempo e di luogo non si applica anche alle autorità politiche, militari o ai leader civili, senza che questi si sentano, per ciò, imbavagliati o cacciati in esilio? Fatto sta che, più di recente, centinaia di studenti (forse, in rapporto alla popolazione studentesca, ancor meno di quell’1,5 di docenti) avevano a loro volta annunciato che avrebbero contestato la presenza del papa a quell’inaugurazione. E il solo loro annuncio ha indotto il pontefice a non andare alla Sapienza. Dove, in virtù delle misure di sicurezza allestite, egli avrebbe potuto parlare tranquillamente, come hanno parlato Mussi e Veltroni, nei confronti dei quali pure era stata annunciata una dura contestazione.
Chi dunque ha impedito che cosa? Ieri il Vaticano ha fulmineamente cambiato la sua versione. Nessuno ha impedito nulla, ha spiegato. E’ stata invece una scelta "magnanima" del Santo Padre quella di non creare, fuori dall’università, i problemi di ordine pubblico paventatigli dal ministero dell’Interno (che smentisce).
Ma se fosse andata così, a maggior ragione, perché una chiamata dei fedeli alla mobilitazione antiregime? Forse si vorrebbe vivere in una società dove non ci siano neanche più piccole minoranze dissidenti, che esprimano ora un giudizio di inopportunità, ora (specie se minoranze giovanili) un’intenzione di contestare?
Davvero è in discussione in questo paese la libertà di parola del capo della comunità cattolica, visto che egli ha più di chiunque accesso ai media televisivi, e che sul territorio egli parla ai fedeli attraverso decine di migliaia di parrocchie, centinaia e centinaia di scuole, associazioni e riviste? Eppure un ricco campionario di esponenti politici ha pensato di manifestare in Vaticano per "difendere il diritto di parola del papa". Ossia per una causa che non esiste. Fin quasi a far temere che il dissenso altrui sia considerato, esso, la "vera" minaccia, la dittatura laicista in arrivo, nuova cavalleria lanzichenecca o cosacca all’orizzonte di Roma. Forse è tragico, come ha detto Arturo Parisi. Ma la sensazione è che la risposta stia altrove. Che questo paese abbia il suo primo, grande problema non nella legge elettorale, non nella divisione tra laici e credenti, non nella giustizia. Ma in qualcosa che viene ancora prima. Ossia nel senso della misura. Nella capacità delle sue classi dirigenti di misurare e raccontare la realtà. Di non farsi trasportare come foglie morte dai venti dell’ideologia e delle campagne mediatiche. Di sapere distinguere il surreale, il comico e il tragico che con tanta disinvoltura si mescolano nelle nostre vicende quotidiane.
Totalmente comica, nemmeno surreale, è stata ad esempio la veglia notturna del "Foglio" in difesa della libertà di espressione del papa. Eppure c’è chi, da sinistra, vi ha visto serietà di causa e di fini e quindi ha ritenuto di parteciparvi. Ma contemporaneamente è tragico il collegamento immediato tra quella veglia e la campagna di Ferrara contro la legge sull’aborto. Tragico che si vogliano ricacciare indietro i diritti civili o le legislazioni conquistate trent’anni fa, invece di farle progredire. Ma è di nuovo comico che a guidare l’esercito che inalbera la bandiera (sempre più grifagna) della "famiglia" siano sterminate truppe di divorziati e libertini. Tragico è che la Regione Sicilia abbia un presidente che avverte i boss mafiosi delle indagini che la magistratura conduce nei loro confronti, specie se si pensa che un suo predecessore di nome Piersanti Mattarella cadde assassinato proprio per difendere la Sicilia dalla mafia. Ma è comico, irresistibilmente comico, che egli esulti e baci amici e benefattori per avere avuto "solo" cinque anni di galera. Sembra un film inventato da un nemico insolente quello di lui che festeggia la condanna offrendo cannoli; o dei suoi alleati che gli danno solidarietà compiaciuta, perché non è mica complice della mafia, perbacco, l’avevamo sempre detto noi, ma solo dei mafiosi.
Poi ci sono le tragedie vere, non fatte di panna montata; e in cui le sfumature comiche proprio non sono possibili. E che però, diversamente dalle altre, non vengono viste fino al collasso sociale o allo scandalo mondiale. Quella della spazzatura, ad esempio, non vista per quindici anni, e che bene ha fatto Prodi a trattare, in questi mesi, come il più serio e vero dei problemi proposti dall’agenda politica. Oppure quella dei morti sul lavoro, che da poco tempo sta sulle prime pagine per merito più del presidente della Repubblica che di tutti gli altri messi assieme. Così come è tragedia (tragedia vera e rimossa) la crisi di legittimità della classe politica. Per risolvere la quale, ammesso che sia ancora possibile, occorre impegnarsi anima e corpo nei propri compiti più che imbucarsi ogni giorno in quella realtà virtuale fatta di televideo e agenzie e della loro interminabile esplorazione. Certo non si risolve, quella crisi, con gli improvvidi applausi bipartisan contro i magistrati. Perché è ben vero che i reati contestati a Mastella sono in realtà i comportamenti praticati da gran parte della politica e non solo in Campania, e che in tal senso egli finisce per diventare una specie di capro espiatorio (oddio quante mammolette spuntano in questi giorni…ma perché, ignoravano come si conquistano le poltrone e le direzioni ospedaliere, o pensavano che i moralisti esistessero per uno sfizio personale?). E tuttavia è anche vero che una politica che marcia a una sola spanna di distanza dal codice penale è una tragedia, anch’essa non vista; forse la più efficiente spiegazione dei nostri ritardi sulla scena dello sviluppo civile ed economico internazionale.
Ecco, oggi occorre alla guida del paese proprio questo: qualcuno dotato dell’autorevolezza per parlare con senno e coraggio a un’opinione pubblica perennemente agitata dalle mille notizie che si gonfiano su se stesse. Capace di indicare i confini tra il fatuo e l’importante, tra il reale e il surreale, tra il comico e il tragico. Che rifaccia l’agenda politica, che fornisca tutti di un accettabile senso della misura, e consenta per questa via di fissare i traguardi e di scegliere la bussola per arrivarci. Il partito democratico dovrebbe aspirare, prima di ogni altra cosa, ad avere questa autorevolezza. Senza, gli sarà tutto maledettamente più difficile.
Nando
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