Sistema elettorale. LA NOSTRA PREFERENZA


(l’Unità, 29 gennaio 2008) – Ma delle preferenze ne vogliamo parlare? Siamo sicuri di avere orecchie buone, almeno quanto basta per ascoltare non si dice i cittadini, ma i nostri stessi elettori? Siamo certi di sapere annusare anche alla lontana le ragioni che stanno scavando un baratro fra la politica e la "gente"? Ferve il dibattito sulle riforme elettorali, sulle urgenze della politica, ma sembra che ci sia un tacito patto per non sfiorare nemmeno il tema. E vien da chiedersi perché.

Perché il centrosinistra sia così timido, assolutamente balbettante, sulla questione delle questioni: il fatto che gli elettori vogliono (pensa te la stramberia) scegliersi i propri eletti. Si ha un bel parlare di dimezzare i parlamentari, di frullare un po’ di sistema spagnolo con un po’ di sistema tedesco o francese. Ma quel che ha generato rabbia, nella legge elettorale voluta dal centrodestra, ciò che la fa apparire fino in fondo "una porcata", è proprio l’impossibilità di scegliersi in qualsiasi forma i propri rappresentanti. Certo, il rischio dell’ingovernabilità in un’Italia divisa in due. Certo, l’assurdità dei premi di maggioranza regionali per il senato. Ma la vera, profonda linea di frattura sta in quel listone bloccato, nell’ordine di servizio giunto a sostituire il libero menù di una volta, nell’obbligo di sorbirti la minestra cucinata dagli apparati. Nel non poterti nemmeno prendere il gusto di punire il "tuo" partito se ti presenta un incapace o un corrotto perché in ogni caso, da qualunque parte ti volti, proprio non hai la possibilità di scegliere una donna o un uomo di tua fiducia. Listoni bloccati dappertutto.


E’ vero che anche con i collegi uninominali ti piovevano addosso candidati scelti dalle segreterie. Ma se non ti piacevano o ti piacevano meno dei candidati dell’altra parte (succede…), potevi scegliere la soluzione alternativa. Non per caso alla Camera almeno duecento collegi (circa un terzo del totale) dipendevano dalle qualità personali dei candidati. Di più. Una volta eletti, i candidati erano tendenzialmente obbligati a mantenere un rapporto di collegamento diretto con gli elettori, o almeno con le loro espressioni organizzate – politiche, civili e sociali -. Con la "porcata", invece, tanti saluti a tutti; il rapporto si è azzerato.


Si consuma così il più eclatante dei paradossi. In una società che personalizza tutto e attraverso la comunicazione mediatica trasforma l’individuo in spettacolo e l’idea politica in individuo; in una società televisiva che ha fatto della politica una compagnia di giro di signore e signori; in una società che predica la centralità della persona, viene fatta sparire proprio la persona. Contano così solo due cose: un simbolo su cui mettere la croce e il futuro premier, lasciando il cittadino con la convinzione di non avere più in parlamento il "suo" riferimento. E’ davvero assurdo quel che è avvenuto e a cui sembra non si voglia cocciutamente porre riparo: un parlamento padre di una legge che incoraggia sentimenti di estraneità popolare al parlamento medesimo. O, detto più bruscamente: un parlamento che fomenta l’antiparlamentarismo.


Al di là dei problemi che produce in termini di stabilità e di coerenza istituzionale, la "porcata" proprio qui si esalta. E da qui rischia di incidere in profondità sull’ antropologia politica del paese. Poichè se questo cruciale aspetto della legge non verrà affrontato con ogni chiarezza ed energia, nulla restituirà alla nostra democrazia l’indipensabile collegamento tra la Piazza e il Palazzo. Qual è dunque il motivo che spinge a rischiare il baratro? Il motivo per cui non si ritiene di intervenire? Lo sappiamo: la ragione inconfessabile è che i partiti, tutti i partiti, all’assenza delle preferenze ci hanno preso gusto. In misura diversa ma ci hanno preso gusto. Conviene alle segreterie scegliere i candidati perché questo garantisce un maggiore livello di fedeltà personali. Conviene a molti maggiorenti diventati tali per cooptazione sottrarsi a ogni misurazione dei propri consensi sul campo. Conviene ai gruppi dirigenti evitare scomode e impreviste ascese di qualche candidato in virtù dei consensi popolari, i quali ogni tanto (anche questo accade…) possono non rispecchiare i pacchetti di tessere ma certificare piuttosto l’appoggio dell’opinione pubblica. Sono convenienze mai dichiarate, è ovvio. Ma che si sono esplicitate in più momenti, dai tempi del dibattito parlamentare sulla stessa legge alla più recente scelta delle liste bloccate per le primarie del Pd.


Ci sono, è vero, anche le ragioni per così dire nobili di questa riluttanza. Le preferenze, si dice, innescano lotte intestine; le campagne individuali danno chances maggiori ai più ricchi e ai più famosi (magari per "meriti" televisivi); le spese crescenti di una campagna individuale incoraggiano la corruzione. Ma ognuna di queste ragioni può essere smontata o ridotta in minoranza. Perché se tutto si decide ai vertici degli apparati, la corruzione può trasferirsi nel tesseramento o nelle correnti di partito e nel procacciamento di risorse "per il partito". Quanto alla "lotta intestina" (che potrebbe essere più benevolmente essere chiamata "competizione"), essa nei collegi uninominali non c’è. Mentre le spese potrebbero, quelle sì, finalmente essere oggetto di una legge seria, che indichi non solo il tetto ma anche i modi per verificarne l’osservanza e i soggetti chiamati a esercitare i controlli più penetranti (almeno sulle voci misurabili: spot, tipografie, affissioni, eventi pubblici). Su una cosa si può essere d’accordo: che alle elezioni per il parlamento europeo, se non si cambieranno le dimensioni delle circoscrizioni, davvero il successo ottenuto a colpi di preferenze diventerà sempre più direttamente legato al censo. Ma questo vale appunto per le elezioni europee, non certo per una delle vecchie circoscrizioni proporzionali e meno che mai per il collegio uninominale.


In realtà, una volta per tutte, bisognerebbe acquisire un principio, anche se fastidioso per gli equilibri partitici: la preferenza o l’indicazione di un nome per il parlamento è ragione e conferma dell’essenza della democrazia. Specie per la storia di questo paese. Non capirlo, rifiutarsi di vedere il problema ci spingerebbe sempre più velocemente verso la diffidenza, verso l’apatia o verso l’ostilità popolare. E voglia il cielo che quest’ultima si limiti a prendere le forme del grillismo.

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