Candidiamo la legge

(Europa, 27 febbraio 2008) – Ma sì, facciamola la provocazione. Ma davvero vi sembra così assurdo candidare un paio di prefetti al sud? Portare nell’agone politico due persone che vengono dalla polizia di Stato e che hanno presidiato i palazzi di governo in questo o quel territorio della Repubblica? Dice che la politica è un’altra cosa. Che richiede doti diverse da quelle del poliziotto che si fa prefetto. E’ vero. Solo che la politica richiede prima di tutto, prima delle sue doti “altre” e specifiche, senso delle istituzioni. Ma ha dimostrato forse di averne, tanto per usare l’esempio oggi più facile, Clemente Mastella che, da ministro, ha fatto calare la saracinesca sui progetti di un intero Paese per un suo caso personale? Hanno forse dimostrato senso delle istituzioni i politici che, potendo a più titoli intervenire, hanno lasciato incancrenire fino a livelli drammatici il problema della spazzatura a Napoli? L’hanno dimostrato i protagonisti del micidiale degrado della politica calabrese, quello descritto in una famosa serata da una trasmissione tivù, in cui pure l’esponente di Rifondazione spiegava come e qualmente fosse giusto assumere nei pubblici uffici il proprio parente, in quanto “persona di fiducia”? E l’ha dimostrato il Cuffaro condannato, gongolante con i suoi cannoli?
Il problema è che la politica appare spesso, oggi, una specie di triangolo delle Bermude in cui affonda ogni senso delle istituzioni. Né per nulla in tutti i sondaggi, e da tempo, il parlamento e i partiti riscuotono assai meno fiducia non solo delle forze dell’ordine o del Presidente della Repubblica, ma anche della scuola, ma anche della magistratura che pure ha subìto in questi anni un rilevante calo d’immagine. E’ sgradevole e anche doloroso constatarlo: ma quando i cittadini cercano il senso delle istituzioni la politica dà l’impressione di rispondere “acqua”. Dappertutto, se è lecito dirlo. Ma in particolare al sud, dove la logica dell’accumulazione dei voti sembra imporle imperativi autonomi, dove essa appare incapace di contemperare il “potere” con il “servizio”. In particolare nel sud, dove maggiore è il grado di trasformismo, dove il controllo del voto e delle tessere modifica ineluttabilmente l’ordine delle priorità, il confine tra giusto e ingiusto, tra decente e indecente. (continua)


E’ qui dunque che spunta il prefetto, con la sua candidatura anomala ma non scandalosa. Perché il prefetto forma il suo rapporto con lo Stato e con i suoi doveri in piena indipendenza dagli elettori. Non deve raccogliere voti e non deve fare tessere. Certo, deve obbedire ai governi. Ma soprattutto deve cercare di far bene il proprio dovere. Cresce insomma a un’altra scuola. Senza mercanteggiare la sua coscienza con una moltitudine di richieste individuali (“ma non abbiamo un nostro ginecologo?”, si imbufaliva Mastella). Per questo, di fronte al degrado galoppante, e senza che ciò debba suonare sconfessione per i politici onesti e lungimiranti, la scelta di candidare due prefetti ex poliziotti non è un’abdicazione della politica ai suoi propri  compiti; ma può persino esprimerne la presa di coscienza radicale circa la necessità di ripulirsi, a partire dall’espulsione dei pregiudicati dalle liste elettorali.

Nella stessa Milano, d’altronde, la scelta di candidare due anni fa a sindaco Bruno Ferrante non nacque dalla abdicazione della politica; ma dalla constatazione che il prefetto più di tutti aveva, nell’esercizio della sua funzione, tenuto alta per l’appunto una certa idea delle istituzioni, altrimenti ridotte, in città, a docili vassalle di Arcore. Insomma, se arrivano i prefetti non è detto che arrivi lo Stato di polizia. Forse non è male ricordare che proprio un prefetto antimafia, più di venticinque anni fa, venne indicato come un pericolo per la democrazia siciliana. E che a indicarlo come tale furono i politici che ammiccavano o trescavano con Cosa Nostra, ossia quelli che rappresentavano il peggior pericolo per  quella disgraziata democrazia. Mentre il prefetto (anche lui ex-“sbirro”) portò ai giovani una rivoluzionaria quanto breve ventata di libertà dalla cultura mafiosa. Meno tabù, insomma. Perché il giudizio, alla fine, dev’essere solo sulle persone. E perché nessun candidato avrà -comunque e per fortuna- pieni poteri. Che se poi si volesse candidare a capolista un giovane che si è fatto la gavetta (la gavetta vera) in qualche cooperativa impegnata sui beni confiscati alla mafia, il messaggio sarebbe ancora più chiaro. Il primato delle istituzioni. Il primato della legge. Che venga dall’alto o che venga dal basso.

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