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Eravamo in centomila
Metti la gente che stipa San Siro o l’Olimpico durante un concerto di Vasco Rossi. E poi falla defluire, con fogge e visi un po’ diversi, ma non del tutto; e falla camminare sul lungomare di Bari con gli striscioni, i colori e le memorie dell’antimafia. E ne verrà fuori qualcosa di grandioso, che prima ti esalta poi ti scava l’animo. Così è stato ieri mattina sotto un sole magnifico che ha regalato ai partecipanti la prima abbronzatura primaverile. Sono state due giornate intense, quelle di ieri e venerdì pomeriggio. Dure, non solo felici. Alla fine del primo pomeriggio, quando sono arrivato al Kursaal dove sarebbe andato in scena "Poliziotta per amore", ero così prosciugato dentro da ciò che avevo sentito dalla voce di alcuni familiari, che ho dovuto riprendermi con un paio di amari, come mi capita quando le sensazioni dolorose mi consumano. La lotta disperata di un padre contro la corruzione nello Stato, in tutte le sue facce, dall’ufficio delle entrate alla Finanza al palazzo di giustizia. Oppure la lotta per la verità di uno dei figli del giornalista Mario Francese, Giuseppe, che dopo che fu ottenuta in tribunale la condanna degli assassini di Cosa Nostra dichiarò esaurito il proprio compito e si uccise; tutto raccontato da suo fratello Massimo, che a stento in certi momenti riusciva a parlare. Un’umanità dolente, dignitosa; piena di una rabbia sacrosanta e tuttavia silenziosa e disciplinata, pronta a manifestarsi in un certo momento in un applauso o in uno scatto in piedi (è successo con don Ciotti, è successo con Nichi Vendola, ma anche ascoltando madri o padri o figlie).
L’autista che mi aveva accompagnato è rimasto sbigottito, quando li ha visti insieme: ma sono tutti familiari? Sì sono tutti familiari. E ogni anno aumentano. Perché aumentano le vittime, ma – per fortuna – anche perché crescono la speranza e la solidarietà; e dunque anche chi non era mai venuto prima ora c’è, pensando che sia una cosa giusta e utile.
Ha ragione Michele Serra. C’era più politica in quella marcia che in una settimana di campagna elettorale. E c’erano tante cose che i giornalisti, concentrati intorno ai palchi e ai big della politica (D’Alema e Bertinotti), non riescono a vedere. Ad esempio lo sconcerto serpeggiante tra alcuni familiari perché don Ciotti ha voluto chiudere la manifestazione facendo risuonare dal palco lo strumento musicale del piccolo Santino Di Matteo (quello sciolto nell’acido), che il bambino inconsapevole aveva lasciato sul suo letto appena prima di uscire per l’ultima volta di casa. Già; alcuni familiari di poliziotti uccisi proprio dal padre di Santino, poi diventato un collaboratore di giustizia, avrebbero preferito che altri fossero lì i bambini ricordati. E se lo dicevano sottovoce al termine della manifestazione. Eppure io capisco e condivido la scelta di don Luigi. Ha un suo senso profondissimo, che sarebbe sbagliato non cogliere. Questo sì sarebbe un bel dibattito.
Queste manifestazioni offrono comunque sempre un’ottima visuale per definire lo stato di salute del nostro giornalismo, e saggiare le regole con cui vengono allevate le sue nuove leve. Ieri a mezzogiorno ero seduto tra i familiari. Si china verso di me una giovane con operatore di telecamera portatile accanto. Lei è un familiare di vittime?. Sì, ho risposto. Farebbe una piccola intervista? D’accordo. Potremmo andare in fondo alle sedie? Ma adesso vorrei sentire don Ciotti. Solo tre minuti. Va bene. Pronto? Siete collegati? Abbiamo qui un familiare di vittime. Sì, mettimi in collegamento. Eddai, come sei simpatico (risata). Pronto? Sì, pronto. Ecco, adesso gli faccio le domande. Dunque lei è il familiare di una vittima della mafia (tipo: ecco il panda tibetano). Sì. Ci vuole dire come si chiama? Nando dalla Chiesa. Ecco: ci vuole raccontare lei che cos’ha subito, la sua storia insomma? Sono il figlio del prefetto dalla Chiesa, ucciso a Palermo dalla mafia; è una storia abbastanza conosciuta. Sì, certo. E senta: voi nel vostro piccolo avete fatto qualcosa per combattere la mafia? A questo punto me ne sono andato senza mandarla… Ma dico: nessuno insegna a prepararsi? Nessuno insegna a volere studiare, capire, per non essere (non dico sentirsi) un cialtrone?
A proposito di fatiche giornalistiche. Grazie di cuore all’Avvenire. E’ stato l’unico quotidiano che abbia riportato del monologo teatrale. E sì che sarebbe stato interessante sapere, vedere, che reazione avrebbe prodotto quel monologo in un pubblico zeppo di familiari di poliziotti uccisi. Ma si sa, quando si è in trasferta ci si dà consigli tra colleghi per cercare subito un buon ristorante. Il corrispondente o inviato dell’Avvenire, Antonio Maria Mira, è andato al ristorante più tardi. Così ha potuto vedere questa scena: "Mentre la brava Beatrice Luzzi racconta, drammaticamente ma anche con gioia, la storia della poliziotta, cinque agenti veri ascoltano nel buio, in piedi sul fondo della platea. Per un’ora. Poi al termine, mentre l’attrice in piedi riceve gli applausi, da uno di loro sale un forte ‘grazie’ mentre un collega scoppia in pianto".
P.S. C’è un’altra cosa che io ho visto e immaginato e i giornalisti no, ma stavolta senza loro colpa. Marciando sul lungomare ho pensato ai miei genitori, che nella caserma dei carabinieri di Bari si conobbero prima della guerra. E che passeggiando sul lungomare di Bari, andando al liceo "Orazio Flacco", si innamorarono. In fondo, ho pensato, ero nato un po’ lì…
Nando
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