MORO, IL RISCHIO DELLA RIMOZIONE

Gli equidistanti, i curiosi, gli indifferenti: l’insostenibile lentezza dell’estrema sinistra(l’Unità, 16 marzo 2008) –

Trent’anni dopo ci sono ancora molte cose da scoprire. Ma per misurarsi adeguatamente con quella drammatica fase della vita repubblicana non c’è solo da scoprire e poi di nuovo capire. C’è anche bisogno di non rimuovere. Di non dimenticare la temperie degli anni. Di non concedere una generosa assoluzione  al confuso ma micidiale magma di ideologia e politica che ribolliva nella società italiana. Perché ci saranno state tutte le ragioni che vogliamo, a rendere quel delitto utile, gradito e desiderabile. Ragioni strategiche, dico. Interne e internazionali. Moro e il compromesso storico, Moro e il Mediterraneo. O perfino Moro e le lotte di Palazzo. Ma l’humus, il retroterra, il magma appunto, non possono finire in un provvidenziale ripostiglio della memoria.

Facevo allora il supplente in un istituto di Milano, il "Cattaneo" Ragionieri, che aveva come cugino attiguo il "Cattaneo" Geometri, la scuola da cui venivano i tre giovanissimi dell’Autonomia ripresi a sparare l’anno prima in via De Amicis in una delle foto più simboliche del nostro Novecento. Si può immaginare già da questo dettaglio se, alla notizia del sequestro e dell’eccidio dei poliziotti di scorta, potei vedere tra gli studenti solo scene di costernazione. Direi piuttosto che molta fu l’indifferenza, accompagnata da curiosità per le dinamiche dell’agguato; molta fu l’agitazione per un fatto che comunque rivelava la forza del terrorismo; serpeggiante fu una vena di compiacimento per quella che sarebbe stata definita "la geometrica potenza"; apprezzabile la preoccupazione; rarissimo l’orrore. Insomma, non si manifestò davvero la miscela più ostile alla realizzazione e alla gestione di una simile impresa. Ma il guaio è che non si trattava di una reazione dominante solo tra gli studenti. Tra i docenti, con tutte le differenze del caso, vi furono atteggiamenti analoghi. Io ne ero stato accolto, per capirsi, quando si seppe che ero il figlio del generale della "repressione", con un commento vagamente augurale ("sarà orfano tra poco"). E in quel mattino ricordo distintamente qualche collega tra i più impegnati politicamente affannarsi a chiedere particolari anche sulle fisionomie degli attentatori, mettersi in ascolto delle radio libere, come per vedere se dai dettagli gli riuscisse di risalire ai gruppi eversivi (amici) che avessero potuto compiere quell’atto di guerra.

Condannare il terrorismo quel mattino partendo dalla notizia dell’eccidio, del sequestro, della tragedia politica? Era difficile, non ce n’erano le condizioni culturali. E’ vero che, nella sinistra, i docenti legati al Pci avevano preso con vigore le distanze dalle ambiguità dell’estremismo, talora anzi con un vigore che li portava a vedere filobrigatisti dove c’era solo opposizione al compromesso storico. Ma nella massa senza etichetta politica di studenti e docenti davvero le ambiguità, le strizzatine d’occhio, scorrevano come acqua fresca. Ricordo che per convincere i miei studenti che quel che era accaduto era grave, da condannare, gli dovetti spiegare che quell’attentato ci avrebbe piombati in una situazione argentina, e presi a dimostrazione la richiesta di introduzione della pena di morte che irruppe subito in parlamento. Non diversamente dovettero fare le grandi strutture politiche e sindacali. La condanna passava (e poteva passare solo) per la presa di coscienza che quell’offensiva al cuore dello Stato avrebbe prodotto un arretramento nella politica italiana, a svantaggio della sinistra e dei lavoratori. "Questo rapimento non è contro lo Stato, ma contro le lotte del proletariato" fu lo slogan liberatorio con cui tutta la sinistra responsabile scese in piazza. Liberatorio perché metteva a posto con la propria coscienza. Sì, per questo si poteva scendere in piazza a milioni contro il sequestro di un leader democristiano. Contro l’uccisione degli "sbirri" di scorta. Contro "i compagni che sbagliano". Perché il sequestro era "oggettivamente" contro le lotte del proletariato. Non lo era certo soggettivamente nei progetti delle Brigate Rosse. Sicché la cultura di chi le aveva guardate fin allora con indulgenza pur votando magari per i partiti della sinistra storica fu messa per la prima volta di fronte alle sue responsabilità. La stessa vicenda del sequestro, la stessa ricerca, direi, da parte di esponenti socialisti di un contatto con i rapitori dimostrò di andare, ora lo sappiamo, oltre il tentativo umanitario di salvare il prigioniero, tingendosi in qualche passaggio di contiguità sotterranea.

Purtroppo, che il terrorismo fosse da condannare in sé, che la frontiera tra la vita e la morte fosse invalicabile in sé, che quella della violenza fosse una strategia antropologicamente regressiva, tutto questo era ancora lontano dal senso comune diffuso nella sinistra. Moro e la sua tragedia umana aprirono, non sancirono, una nuova riflessione di cui fu testimone coraggioso il quotidiano "Lotta continua". Le vere distanze, quelle che portarono a stare contro, come si direbbe oggi, "senza se e senza ma", furono tirate solo quasi un anno più tardi, con l’assassinio di Guido Rossa, l’operaio comunista, e di Emilio Alessandrini, il magistrato democratico che aveva indagato sulla pista nera di Piazza Fontana.

Trent’anni dopo, mentre si cerca la verità più vera, mentre si cerca di affrontare i nodi irrisolti di quella vicenda spartiacque, è bene – perché la storia non si contorca su se stessa – che lo sfondo corposo su cui essa si mosse non venga sfocato o addirittura rimosso.

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