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Expo, quando l’Italia gioca insieme
(l’Unità, 2 aprile 2008) – Bacio, bacio. Non è nato dal più classico degli incitamenti goliardici lo scambio di effusioni tra Letizia Moratti e Romano Prodi. E neppure l’incontro ravvicinato tra le guance del sindaco e i baffi di Massimo D’Alema. Si è sprigionato, invece, dalla gioia spontanea e collettiva per un traguardo a lungo atteso e caparbiamente inseguito. Di qua Milano, il suo sindaco e la sua opinione pubblica. Di là il governo con la sua promessa di riservare a Milano un trattamento da grande capitale, e con i suoi ministri e sottosegretari impegnati da tempo a raggiungere questo obiettivo. Un gioco di squadra eccellente, come se ne vedono pochi sulla nostra scena politica e istituzionale. La scelta responsabile, neanche troppo declamata, di marciare uniti verso l’obiettivo. La scelta di raggiungerlo, prima di tutto, senza interrogarsi troppo su chi ne avrebbe incassato i dividendi politici. Un soprassalto di orgoglio cittadino e nazionale che arriva – rara avis – volando su una galleria infinita di egoismi e irresponsabilità di ruolo, che non hanno risparmiato nemmeno il governo dell’Unione.
Strano paese, questo. Che quando scattano certe e irripetibili combinazioni sa fare muro, sa trovare il filo dell’interesse comune. Sa gioire e soffrire insieme, anche nel fuoco di una campagna elettorale che lo spacca in due, per un successo di tutti. Che premia la città simbolo del berlusconismo rilanciandola al centro dell’attenzione mondiale; e al tempo stesso consacra i meriti del governo più inviso a Berlusconi, quello guidato da Romano Prodi. Naturalmente il Cavaliere non si è sottratto alla tentazione di azzerare i meriti governativi e di intestare il successo alle sue bandiere. Ma il bacio-bacio tra Moratti e Prodi, Moratti e D’Alema, spiega con la forza delle immagini la (grande) natura comune dell’impresa. L’Italia in declino, l’Italia rancorosa, l’Italia in affanno e con classi dirigenti al ribasso, ha avuto un formidabile colpo di reni; come l’Italia stanca e molle che arrivò in Spagna nell’82 per vincervi i campionati del mondo, e che fu resa invincibile da un colpo di reni su cui nessuno avrebbe scommesso. Ma che un’atmosfera magica rese possibile in quei giorni. Qualcosa di molto simile è accaduto in questi mesi nell’agone politico: la nascita di quella tipica unità da sfida collettiva in cui tutti si gettano alle spalle qualcosa e, per converso, si caricano sulle spalle qualcosa che prima non c’era. Così che una volta di più si resta perfino allibiti nel constatare quali siano le nostre risorse potenziali, a quali conquiste possa tendere il "genio italico" quando ci comportiamo "come se". Come se fossimo altra cosa da noi stessi. Il fatto è che i colpi di reni che hanno costellato la nostra storia civile, dai giovani volontari ai tempi dell’alluvione dell’Arno alla lotta al terrorismo, ad alcuni momenti della lotta alla mafia, sono sempre durati poco. Grandi episodi. Che non hanno mai modificato in profondità il costume civile e politico. Che hanno fatto scuola senza cambiare il paese. Diventando spesso, semmai, brillanti alibi retorici per le sue pigrizie e cialtronerie. Perché, tornando alla metafora calcistica, se basta uno scatto d’orgoglio per vincere un torneo di poche settimane, non basta lo stesso scatto per costruire un ciclo, per cambiare la qualità di una squadra o addirittura di uno sport. Questa è in fondo la nostra risorsa e la nostra maledizione. Costretti a negare la nostra natura per costruire grandi vittorie, e scoprire al contempo che la nostra natura -quella che alla fine ci tiene nel consesso dei paesi civili- sta proprio nella capacità di negare noi stessi nel momento giusto. Un po’ come ci ha insegnato sui libri di storia l’eroismo senza disciplina militare delle nostre guerre.
Ebbene, qui è Rodi, come si dice. La vittoria di Parigi deve ora essere messa pienamente a frutto. Deve servire a rigenerare Milano. A renderla più accogliente e funzionale, più bella e meno assurdamente cara, più ospitale e più trionfante di arte e di cultura oltre che di nuove infrastrutture. Ma questo, se sarà, sarà il risultato di valutazioni e di scelte che non si snoderanno in un arco breve di mesi. Ma in un arco di anni. I quali saranno segnati da turbolenze politiche, da soprassalti di autosufficienza e arroganza del potere, da pressioni e tentazioni inconfessabili, da un’infinità di interessi di bottega. Tutti affacciati, più tonici che mai, sulla grande arena dei progetti dove le lobbies si contenderanno decisioni pubbliche e finanziamenti leggendari. In cui passeggeranno ogni giorno i professionisti dei "buoni consigli", i cantori delle opere "senza le quali la città non potrà restare in Europa", in cui i grandi elettori della stessa maggioranza di Palazzo Marino presenteranno con molto garbo il conto del loro sostegno. Saranno anni di richieste e trattative che non verranno riprese – loro – da alcuna televisione, ma che avverranno in atmosfere ovattate. Anni lunghi. In cui non basterà il guizzo. In cui, invece, occorrerà sfoderare una vera cultura di governo, da Roma e da Milano. Per dare alla città il meglio di cui avrà bisogno per recitare la sua parte da grande protagonista.
Occorrerà una visione insieme lungimirante e chirurgica. Lungimiranza sul progetto generale di città che si vuole allestire, con le sue priorità, i suoi punti di forza da costuire ed esibire. E l’occhio del "chirurgo keynesiano" per impiegare i fondi con oculatezza certosina e imprimere loro al contempo una funzione moltiplicatrice. Insomma, per non gettarli a grandi lotti nei soliti capitoli (cemento & affari, per capirsi), con l’effetto certo di esaurirne i benefici in recinti ristretti e di sottrarre risorse preziose a voci cruciali per la qualità civile e culturale della metropoli.
Bacio, bacio. Vorremmo poterlo gridare da qui a sette anni ai governanti di allora, di Roma e di Milano, per festeggiare a pieno merito – come è accaduto ieri – quella che dovrebbe essere la più felice metamorfosi di Milano negli ultimi trent’anni. Ma dopo lo scatto di reni di questi mesi, vedremo un mutamento duraturo nel senso della responsabilità istituzionale, nella cultura di governo, nella fantasia creativa e creatrice? Questo è il nodo. La sfida dell’Expo è appena incominciata.
Nando
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