Perché si è perso. Noi e il nord

(l’Unità, 3 maggio 2008) – Il triangolo delle Bermuda. Proprio così. Per capire che cosa è successo politicamente in quel grande e ricco triangolo che qualcuno chiama Padania bisogna evocarne un altro assai noto, di triangolo. Allegoria di realtà esasperanti, di storie infinite dei rapporti tra cittadini e Stato. Di abissi misteriosi, come quei luoghi dei ministeri in cui le pratiche arrivano sotto forma di diritti dei cittadini per fuoriuscirne (se e quando ne fuoriusciranno) sotto forma di favori e concessioni. Anche da qui bisogna partire per comprendere quanto è accaduto. E occorre farlo senza ambiguità. Perché quale federalismo possiamo stancamente contrapporre a quello “antinazionale” di Bossi se sotto il nostro governo abbiamo spesso praticato un potere a imbuto, soffocatore di istanze e domande sociali, lasciando vivere e talora incoraggiando pratiche arbitrarie e modalità kafkiane di esercizio del potere? Responsabilità di Romano Prodi? No, perché non gli si poteva certo chiedere anche questo: di trasformarsi nel Corsaro Buono deputato a proteggere i mille malcapitati navigli in rotta verso i triangoli delle Bermuda disseminati nella nostra amministrazione. Responsabilità invece di una cultura diffusa, che prende molte voci e si incarna in molti volti. Ai livelli più alti e più spesso ai livelli sottostanti. Quelli, comunque, delle decisioni. Quelli dove si stabilisce secondo criteri imperscrutabili che cosa vada firmato e cosa no.

Bisogna parlare di esperienze concrete, per capirsi. E dunque metto sul piatto il seguente problema: ma se io, io come sottosegretario di Stato, come membro del governo intendo, non sono riuscito a ottenere che dei provvedimenti dovuti venissero firmati in quattordici mesi (quattordici mesi dico!), o ho dovuto sudare, minacciare, premere, sfoggiare ogni attitudine diplomatica, per ottenere che altri venissero firmati in due, cinque, sette mesi, non in altri ministeri, ma nel mio ministero, non su materie affidate ad altri, ma sua materie rientranti nella mia delega di governo, non su materie capricciose ma su materie dovute, qual è il grado di fiducia e di familiarità che può avere il normale cittadino nei confronti della amministrazione centrale, quale la sua disponibilità a riconoscere la funzione di interesse generale dello “Stato romano”? Proprio questo è successo: che cittadini, istituzioni, venissero tenuti gratis in una interminabile precarietà, che diritti o legittime o fondate domande collettive venissero frustrate, facendo apparire l’amministrazione arbitraria e lontana. Con il responsabile di governo incaricato sempre in bilico tra la tentazione di dare le dimissioni e lo sforzo di arginare l’arbitrio. Illuso che la pazienza aiutasse a risolvere il problema nel corso dei cinque anni di governo, che servisse comunque a ottenere almeno il cinquanta per cento degli obiettivi. E restio a intrupparsi, con una denuncia pubblica, fra i tanti che sparavano sul governo dall’interno del governo.

 

Anomalie di un solo ministero? Ma no. Un giorno dello scorso inverno, nel cuore del movimento di occupazione delle accademie di belle arti e dei conservatori, si pose un problema: ottenere una circolare chiarificatrice. Dovuta. Volta a ribadire quanto già era in legge. Che interessava decine di migliaia di studenti. Il ministro competente mi ascoltò, comprese, poi disse ai suoi diretti collaboratori, davanti a me: entro una settimana va fatta questa circolare. Passarono invece le settimane e la circolare non arrivava. Cercavo i dirigenti di quel ministero, io membro del governo, e loro -tranne uno- si negavano. Intanto le occupazioni continuavano. Contro il governo, è chiaro. Ritelefonai al ministro che intervenne nuovamente. Ancora nulla. Nulla neanche sul fronte dei contatti interministeriali. Dovetti minacciare di stabilirmi giorno e notte in quel ministero fino alla firma della circolare (di cui, per accelerare al massimo i tempi, avevo anche mandato una bozza di testo), di portarmi dietro le tivù, di scrivere un pezzo di fuoco con nomi e cognomi su queste pagine. Solo allora la circolare venne firmata. Che dire? Che su questo fronte come su altri, per tanti mesi mi è capitato di passare notti insonni per la rabbia, per le assurdità, starei per dire le follie, di cui ero testimone. Ed ecco la domanda: ma se mi ci rodevo io che non avevo alcun interesse personale, come si sarà sentito, come si sentirà normalmente, il commerciante veneto o l’imprenditore lombardo o la piccola associazione di categoria costretti ad affrontare questa cultura, avendo -essi sì- interessi personali e diretti, di vita quotidiana, da difendere? Da qui a mio avviso, non da celesti speculazioni, occorre partire. Con il dovere di capire perché non si riesca a esprimere una diversa visione del potere centrale. Perché non si riescano a garantire comportamenti e norme coerenti con la fluidità, la semplicità e la velocità con cui giustamente i normali cittadini e più ancora le economie sviluppate chiedono di vivere e funzionare. Capire perché, tanto per fare un piccolo esempio (citato da tutti i tassisti ma non solo da loro), si sia introdotta quella norma che prevede l’obbligo di versamento solo telematico delle somme Iva con aggravi (sui contribuenti) che non saranno tasse vere e proprie ma che, sia pure sotto forma di parcelle ai commercialisti, corrispondono a nuovi pagamenti imposti dallo Stato. Cifre che non entrano nel calcolo della pressione fiscale, insomma, ma che escono lo stesso dalle tasche dei cittadini.

Roma ladrona e il nord. La burocrazia che fa impazzire, che fa e disfa a suo piacimento, e la rivolta del nord. E la sinistra di governo. Che a volte trova queste burocrazie già fatte sul posto. E che (ecco il punto!) quando se le trova non si cura troppo del loro operare, talora dà loro copertura politica. Ma, fatto ben più grave, a volte se le porta dietro direttamente lei, sotto forma di tecno-strutture giuridiche e amministrative, a rimorchio delle proprie vittorie elettorali. Scelte da lei, in base alle convinzioni ideologiche professate. Tra loro collegate, potere nel potere, sottratte a ogni responsabilità pubblica ma ferocemente determinate a impiegare (perché così gli viene consentito o richiesto) un potere politico extracostituzionale. “L’operare senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo”. Lo scrisse un lombardo non leghista, Alessandro Manzoni. Appunto. Grazie ai metodi di cui sopra, nasce un sistema pubblico che rende la vita faticosa per chiunque, tranne che per due categorie: 1) i titolari del leggendario “potere di firma”; 2) i beneficiari di rapidi favori e concessioni da parte dei medesimi.

Il che non è secondario nella spiegazione del voto. Perché c’è qualcosa nella lettura del successo della Lega e, più in generale, della destra (continuo a semplificare) che viene dimenticato in questi giorni. Non è affatto vero che questo sia stato il più grande successo leghista. La Lega ha avuto in passato successi anche più consistenti. Perché ha un elettorato a fisarmonica. In parte essa è infatti partito-progetto o partito-identità, ma in parte è partito-termometro. Termometro dei malumori sociali. Dunque ingrossa impetuosamente nelle fasi in cui sono massimi il discredito della classe politica e la percezione di una amministrazione distante e arbitraria. Esplose con Tangentopoli e con i moduli folli di dichiarazione dei redditi, è riesplosa con la casta e la sua autoreferenzialità. Esplose di fronte al potere che finiva in manette, è esplosa di fronte al potere che (si) concedeva l’indulto (sarà un caso che i due vincitori di queste elezioni siano stati i due partiti, Lega e Di Pietro, che si opposero a quella legge sciagurata?).

Qui e oggi il nostro problema, diciamolo finalmente, non è tanto di rispiegarci per l’ennesima volta come è cambiato il nord. Per carità, un’analisi in più -se è buona- non fa mai male. Ma è dal ’93-’94 che ci rispieghiamo, in forma sempre più dotta e fiorita, che cosa è successo e perché. Esistono ormai sul tema intere biblioteche. Sicché la bravura del politico non sta nel ripetere con eleganza sociologica “che cosa non abbiamo capito”. La sua bravura sta nello spiegare perché – pur sapendo noi perfettamente quel che è accaduto – continuiamo a fare politica “come se”. Come se non fosse successo niente, come se non si fossero manifestati anche in forma brutale cortocircuiti politici, fratture culturali, istanze indifferibili. Non è il nord l’oggetto dell’analisi. Siamo noi. Il nostro dna culturale, le sue ragioni, le sue implicazioni, le nostre forze di gravità e di inerzia. E’ un po’ più scomodo che risfornare l’ennesima lettura dei cambiamenti sociali. Produce più asperità. Ma va fatto. Altrimenti il rischio è di vivere una lunga stagione da opposizione “incistata” in un sistema che cambia. Che cambia “come se”. Come se noi non ci fossimo.

P.S. Perché un articolo sul nord quando è fresca la sconfitta di Roma? Perché questo articolo è stato scritto prima dei ballottaggi ma, d’accordo con il Direttore, è stato tenuto in frigorifero fino al voto. Per evitare che potesse nuocere al centrosinistra in giorni decisivi. Ora la disciplina di squadra cede il passo al dovere dell’analisi.

 

Leave a Reply

Next ArticleSapessi com'è facile innamorarsi a Mantova