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Vittime del terrorismo. IL CORAGGIO DI NAPOLITANO
(l’Unità, 11 maggio 2008) – Meno male che ci sono loro, i Presidenti della Repubblica. Che hanno il potere di parlare in nome di un popolo.
Dei suoi valori, della sua Costituzione. E che nel farlo possono porre in secondo piano o mettere tra parentesi pensieri, scrupoli, problemi che pure hanno o sembrano avere una loro indiscutibile legittimità.
Che possono rinviare ad altra data ogni buona dissertazione sul diritto di cronaca, sulla completezza dell’informazione, sulla riabilitazione del reo o sull’eguaglianza dei diritti.
Giorgio Napolitano ha posto per tutti – ed era ora – una limpida questione di civiltà. Il diritto alla memoria, il diritto al racconto collettivo, il diritto di portare il proprio punto di vista nella narrazione dei momenti sanguinosi della vita del Paese spetta prima di tutto alle vittime. Non ai carnefici. Chi ha ucciso, chi ha sconvolto e umiliato altre vite senza rimedio ha, in questo senso, meno diritti. Ha certo il diritto ad avere un giusto processo. Ha certo il diritto al reinserimento alla vita civile dopo l’espiazione della pena. Ha anche il diritto – e anzi il dovere – di dare informazioni utili a meglio analizzare e comprendere radici e modalità della violenza. Ma non ha il diritto di trasformarsi in testimone privilegiato della storia. Quasi che dopo avere esercitato il potere della sopraffazione attraverso le armi, gli spetti di continuare a esercitarlo – nei confronti delle sue vittime – attraverso la parola.
Sembra elementare, ovvio, ricordarlo. Sembra perfino insultante per l’orgoglio civile di un Paese. Eppure, passo dopo passo, la sopraffazione si è compiuta. E per molte ragioni. Perché i terroristi erano spesso persone con un alto grado di istruzione, in alcuni casi professori e ricercatori universitari, abituati a scrivere manifesti ideologici sì paranoici ma certo intrisi di sapere e di dottrina. Insomma, persone con facilità di scrittura e di racconto. Per giunta portatrici di nomi resi tristemente famosi, ma comunque famosi – e nella nostra società non fa purtroppo differenza -, dalle loro pubbliche “gesta”. I familiari delle vittime erano invece il più delle volte poco istruiti, della loro stessa condizione e provenienza sociale. Con cognomi sconosciuti e destinati a finire nel dimenticatoio, specie se nelle cronache prevaleva la dicitura collettiva “agenti di scorta”. Cognomi stampati in piccolo sulle prime pagine dei giornali solo per descrivere l’ennesimo delitto, nulla mai prima nulla più dopo. Oppure erano troppo piccoli – i figli, i tanti figli bambini – per potere e volere ricordare. In ogni caso, tutti, genitori, mogli e figli, guardati, soppesati con sospetto dalla società dello spettacolo. Buoni, con le loro lacrime e le loro voci spezzate, per mettere ogni tanto l’ingrediente prezioso della commozione in qualche trasmissione rievocativa. O per essere usati rozzamente contro la sinistra, affascinata dal comunismo – non si diceva forse così? – proprio come terroristi, sia pure con quella doppiezza di rifarsi alla democrazia parlamentare. Purtroppo a sinistra, nel frattempo, più di uno avallava con i suoi comportamenti proprio questo stereotipo.
Sarà perché i terroristi erano davvero vissuti in certi ambienti come pesci nell’acqua, sarà perché erano i “compagni che sbagliano” di compagni che non sbagliavano, fatto è che per anni e anni la sinistra ha annoverato tra i suoi esponenti diversi parlamentari pronti a tuffarsi in ogni spiraglio utile per chiedere «la fine degli anni di piombo», «la chiusura delle ferite del terrorismo», «la riconciliazione civile»; e che, nel dirlo, pensavano in realtà a una cosa sola: l’amnistia. Amnistia per gli ex-terroristi, per quelli che restavano “a marcire in carcere”. Di più. Un’antica, inconfessabile affinità di retroterra culturali e politici portava tanti, inconsciamente, a cercare soprattutto loro, gli ex-terroristi per le interviste sui tempi della mattanza, con la motivazione per tanti aspetti ineccepibile che “ormai hanno pagato il loro conto con la giustizia”.
C’è voluto il bel libro di Mario Calabresi, “Spingendo la notte più in là”, per rompere le convenzioni, per rendersi conto che in Tv come nelle librerie il racconto di quegli anni era ormai segnato in prevalenza dalle memorie di chi uccise, e che dietro le copertine e i nomi famosi degli assassini se ne stava accucciata e silenziosa una folla di dolenti sconosciuti, per i quali era pronta, alla prima parola di protesta l’accusa alternativa di “vittimismi” o di “vendicativi”. Privi di voce perché fuori, oggi come ieri, dai circuiti che contano nell’opinione pubblica.
Partecipai un giorno di molti anni fa a un’assemblea universitaria in cui giovani cattolici invitavano i propri coetanei ad alleviare le pene dei terroristi in carcere, ad aiutarli a ricostruirsi un percorso umano e civile dopo avere tanto sbagliato. Nulla da dire. Solo che avevo visto il giorno prima su un telegiornale un’intervista alla moglie del maresciallo Leonardi, il capo-scorta di Aldo Moro. E ne ero rimasto profondamente scosso. Così volli ricordare agli organizzatori che c’era comunque chi fuori dal carcere, piangeva per qualcuno, innocente, che non avrebbe mai rivisto. Chi più di tutti avrebbe avuto bisogno e diritto al loro conforto. I miei interlocutori, tra cui sedevano in prima fila proprio alcuni ex-terroristi si turbarono. Compresi che non avevano messo neanche in conto quell’obiezione. Alla fine un ex brigatista, già personaggio di spicco di una grande fabbrica, venne da me e alludendo ai suoi ex compagni di lotta mi disse sottovoce: «Professore, questi non hanno ancora capito che cosa abbiamo fatto». Aveva ragione. Prima e dopo, nelle tante interviste ascoltate in tv, una volta sola (ma forse sono stato sfortunato…) mi è capitato di sentire parole di vero, autentico dolore per il dolore inflitto, per il resto ho potuto udire più e più volte le tipiche formule dell’autocritica, come si dice, della dissociazione: «Abbiamo sbagliato tutto, la storia andava da un’altra parte», «abbiamo nuociuto al movimento operaio», «ci siamo illusi di avere dietro le masse»; esattamente come potrebbero recitare – compunti, sia ben chiaro – dei leader politici sconfitti nelle urne della democrazia.
Sia chiaro: ognuno ha il diritto di raccontare. Ma un Paese ha anche il dovere di fare i conti con la sua identità civile, di guardarsi allo specchio e di vedere che la superficialità e l’incultura di un intero sistema (intellettuale, mediatico, politico) hanno consentito che progressivamente si verificasse un rovesciamento delle gerarchie e dei diritti.
Ecco, il Presidente della Repubblica ha potuto omettere le distinzioni, le tante professioni di fede in buoni principi e pacifici diritti, nei quali si era alfine impantanata la dignità della Memoria.
Perché la storia ha sempre un momento in cui presenta il conto. E chiede a tutti, qui sì senza se e senza ma, da che parte si sceglie di stare.
Nando
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