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(l’Unità – )«In piazza compagni, in piazza!». L’insegnante dalla barba nera come
la pece chiudeva sempre così i suoi interventi nelle assemblee sindacali.
Facevo il supplente alle medie superiori, allora. E benché si fosse in
pieno ’77 quell’incitamento da condottiero senza cavallo succedeva a me e a
qualche altro giovane docente di un’irriverente ironia. Per il nostro
collega la piazza era una specie di divinità materna e complice; quel che
non si riusciva a risolvere nel contrasto fra le idee o nella conta dei
numeri lo avrebbe risolto magicamente Lei. E sempre a vantaggio dei
«rivoluzionari». La piazza come grande taumaturgo. La piazza come luogo di
salvezza. Sono passati più di trent’anni e ora la sinistra sembra divorata
da un demone uguale e contrario. La piazza viene sempre più vista come il
luogo della perdizione, come il notaio oggettivo e inflessibile di un
pensiero debole. Anzi di più: come la tomba della politica intelligente.
Chi ci va è «unfit» inadatto.
In particolare il rapporto tra la piazza e il Partito democratico sta
prendendo, sul piano culturale, un che di patologico e inquietante. Di
paradossale, perfino di ossessivo.


Perché la questione irrompe di peso nel processo che vede il partito alla affannosa ricerca di una identità politica. Capace di dare all’opinione pubblica «non di sinistra» la cifra
di una cultura riformatrice, la garanzia di quella capacità propositiva che
sola legittima – insieme al senso delle istituzioni – a rivendicare una
cultura di governo. Così, nell’affanno, si è ingenerata la convinzione che
una politica all’altezza dei tempi escluda alla radice il ricorso alla
mobilitazione pubblica. Che l’una cosa sia incompatibile con l’altra. Come
se la politica potesse fare a meno di quella che in fondo è stata la sua
culla, ossia l’agorà.
E invece l’alternativa di istituzioni-piazza è del tutto estranea alla
storia della politica, anche di quella moderna. Non esiste partito che,
soprattutto trovandosi all’opposizione, non cerchi di dare slancio alla
propria presenza e ai propri progetti usando tutti gli strumenti
comunicativi e di partecipazione a sua disposizione, a partire dalle
manifestazioni pubbliche. La Lega organizza con regolarità le sue marce e
le sue adunate senza che nessuno si sogni di rimproverarglielo, anche
quando obiettivi e parole d’ordine appaiano in rotta di collisione con la
Costituzione repubblicana. Lo stesso hanno fatto dall’opposizione Forza
Italia e Alleanza Nazionale. Alle quali nessuno contesta per questo di non
aver sufficiente cultura di governo, tantomeno quei giornali che amano
stigmatizzare la sinistra e denunciarne le derive massimaliste se essa si
azzarda a commettere il peccato dei peccati: chiamare alla mobilitazione il
proprio elettorato.
In realtà la piazza, metaforicamente intesa, esprime una faccia fisiologica
della politica. Esprime il radicamento popolare di un partito e la sua
capacità di avere un’anima, di fare circolare il proprio sangue nel corpo
sociale. Segnala la sua tempestività, l’agibilità nel favorire la
partecipazione democratica, nel soddisfare il bisogno insopprimibile di
elettori e simpatizzanti di dichiarare in pubblico, anche di forme
semplificate, il senso delle proprie convinzioni politiche. Per questo la
piazza non è necessariamente l’adunata oceanica che «buca» il paesaggio dei
media, ma può anche essere la classica manifestazione per i diritti civili
che tante volte abbiamo apprezzato attraverso gli andirivieni o i sit-in di
poche persone-sandwich nelle vie centrali di Washington, di Londra o di
Praga. E nulla ha a che fare con la cultura cosiddetta della «spallata»,
che appartiene semmai alla Prima Repubblica, quando capi di governo non
eletti dal popolo potevano essere deposti per effetto di grandi
manifestazioni popolari. Semmai la piazza serve a promuovere valori (la
pace, la giustizia, la solidarietà) o a difenderli quando vengono
furiosamente aggrediti. Il problema che dunque il Partito democratico ha
oggi è – detto brutalmente – di non bruciarsi i ponti alle spalle, di non
consegnarsi mani e piedi all’avversario annunciando «urbi et orbi» che la
cifra politica della sua modernità sta nella rinuncia alla piazza, luogo di
perdizione, simbolo infallibile di manicheismo ideologico o di ottusità
politica. Di non dire, come purtroppo ha detto quando già era partito il
micidiale «filotto» dei nuovi provvedimenti berlusconiani sulla giustizia,
«non torneremo al 2001» (traparentesi: nel 2001 non venne fatto niente, fu
nel 2002 che, dell’impulso di qualche decina di parlamentari e di qualche
libera associazione civile nacque la stagione dei movimenti).
Significherebbe privarsi di un canale partecipativo che ogni altro partito
pratica senza complessi. Occorre insomma avere ben chiaro che non è la
protesta in sé a esprimere l’incapacità di fare politica alta e matura. Ma
è l’incapacità di protestare quando è necessario farlo a rivelare una
pericolosa inidoneità politica. È il contemplare inerti chi svaligia le
istituzioni che da una patente di incapacità. Nulla in sé intelligente o
stupido, infatti. Ma è sempre il concreto contesto che decide. È lui a
definire l’intelligenza politica della situazione: a rendere patetico il
caro collega che incitava severo con il suo «in piazza compagni, in piazza»
e a rendere, trent’anni dopo, altrettanto strampalato chi annuncia davanti
agli scassi istituzionali che, per carità, in piazza non ci si torna più,
ormai siamo entrati nella maggiore età.
Se il problema è di cercare un’identità più avanzata da offrire al paese
(ed è un problema che esiste) allora bisogna che si proceda in altra
direzione. Magari liberandosi delle bardature culturali e delle pratiche
dinastiche che fanno del partito una somma di ex-ds ed ex-popolari. Magari
facendogli una strepitosa iniezione di democrazia (che non è cosa strana
per un partito democratico…). Sapendo insomma che quel che occorre è una
nuova cultura politica, non un’amputazione della politica.

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