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Perché dico viva la piazza
(l’Unità, 3 luglio 2008) – «In piazza compagni, in piazza!». L’insegnante dalla barba nera come la pece chiudeva sempre così i suoi interventi nelle assemblee sindacali.
Facevo il supplente alle medie superiori, allora. E benché si fosse in pieno ’77 quell’incitamento da condottiero senza cavallo suggeriva a me e a qualche altro giovane docente più di un’irriverente ironia. Per il nostro collega la piazza era una specie di divinità materna e complice. Quel che non si riusciva a risolvere nel contrasto fra le idee o nella conta dei numeri lo avrebbe risolto magicamente Lei. E sempre a vantaggio dei «rivoluzionari». La piazza come grande taumaturgo. La piazza come luogo di salvezza. Sono passati più di trent’anni e ora la sinistra sembra divorata da un demone uguale e contrario. La piazza viene sempre più vista come il luogo della perdizione, come il notaio oggettivo e inflessibile di un pensiero debole. Anzi di più: come la tomba della politica intelligente. Chi ci va è «unfit», inadatto.
In particolare il rapporto tra la piazza e il Partito democratico sta prendendo, sul piano culturale, un che di patologico e inquietante. Di paradossale, perfino di ossessivo.
Perché la questione irrompe di peso nel processo che vede il partito alla affannosa ricerca di una identità politica. Capace di dare all’opinione pubblica «non di sinistra» la cifra di una cultura riformatrice, la garanzia di quella capacità propositiva che sola legittima – insieme al senso delle istituzioni – a rivendicare una cultura di governo. Così, nell’affanno, si è ingenerata la convinzione che una politica all’altezza dei tempi escluda alla radice il ricorso alla mobilitazione pubblica. Che l’una cosa sia incompatibile con l’altra. Come se la politica potesse fare a meno di quella che in fondo è stata la sua culla, ossia l’agorà.
E invece l’alternativa istituzioni-piazza è del tutto estranea alla storia della politica, anche di quella moderna. Non esiste partito che, soprattutto trovandosi all’opposizione, non cerchi di dare slancio alla propria presenza e ai propri progetti usando tutti gli strumenti comunicativi e di partecipazione a sua disposizione, a partire dalle manifestazioni pubbliche.
La Lega organizza con regolarità le sue marce e le sue adunate senza che nessuno si sogni di rimproverarglielo, anche quando obiettivi e parole d’ordine appaiano in rotta di collisione con la Costituzione repubblicana. Lo stesso hanno fatto dall’opposizione Forza Italia e Alleanza Nazionale. Alle quali nessuno contesta per questo di non aver sufficiente cultura di governo, tanto meno quei giornali che amano stigmatizzare la sinistra e denunciarne le derive massimaliste se essa si azzarda a commettere il peccato dei peccati: chiamare alla mobilitazione il proprio elettorato.
In realtà la piazza, metaforicamente intesa, esprime una faccia fisiologica della politica. Esprime il radicamento popolare di un partito e la sua capacità di avere un’anima, di fare circolare il proprio sangue nel corpo sociale. Segnala la sua tempestività, l’agilità nel favorire la partecipazione democratica, nel soddisfare il bisogno insopprimibile di elettori e simpatizzanti di dichiarare in pubblico, anche in forme semplificate, il senso delle proprie convinzioni politiche.
Per questo la piazza non è necessariamente l’adunata oceanica che «buca» il paesaggio dei media, ma può anche essere la classica manifestazione per i diritti civili che tante volte abbiamo apprezzato attraverso gli andirivieni o i sit-in di poche persone-sandwich nelle vie centrali di Washington, di Londra o di Praga. E nulla ha a che fare con la cultura cosiddetta della «spallata», che appartiene semmai alla Prima Repubblica, quando capi di governo non eletti dai cittadini potevano essere deposti per effetto di grandi manifestazioni popolari. Semmai la piazza serve a promuovere valori (la pace, la giustizia, la solidarietà) o a difenderli quando vengono furiosamente aggrediti. Il problema che dunque il Partito democratico ha oggi è – detto brutalmente – di non bruciarsi i ponti alle spalle, di non consegnarsi mani e piedi all’avversario annunciando «urbi et orbi» che la cifra politica della sua modernità sta nella rinuncia alla piazza, luogo degradante,
simbolo infallibile di manicheismo ideologico o di ottusità politica. Di non dire, come purtroppo ha detto quando già era partito il micidiale «filotto» dei nuovi provvedimenti berlusconiani sulla giustizia, «non torneremo al 2001» (tra parentesi: nel 2001 non successe niente, fu nel 2002 che, per impulso di qualche decina di parlamentari e di qualche libera associazione civile, nacque la stagione dei movimenti).
Significherebbe privarsi di un canale partecipativo che ogni altro partito pratica senza complessi. Occorre insomma avere ben chiaro che non è la protesta in sé a esprimere l’incapacità di fare politica alta e matura. Ma è l’incapacità di protestare quando è necessario farlo a rivelare una pericolosa inidoneità politica. È il contemplare inerti chi svaligia le istituzioni che dà una patente di incapacità. Nulla in sé è intelligente o
stupido, infatti. Ma è sempre il concreto contesto che decide. È lui a definire l’intelligenza politica della situazione: a rendere patetico il caro collega che incitava severo con il suo «in piazza compagni, in piazza» e a rendere, trent’anni dopo, altrettanto strampalato chi annuncia davanti agli scassi istituzionali che, per carità, in piazza non ci si torna più, ormai siamo entrati nella maggiore età.
Se il problema è di cercare un’identità più avanzata da offrire al paese (ed è un problema che esiste) allora bisogna che si proceda in altra direzione. Magari liberandosi delle bardature culturali e delle pratiche dinastiche che fanno del partito una somma di ex-ds ed ex-popolari. Magari facendogli una strepitosa iniezione di democrazia (che non è cosa strana per un partito democratico…). Sapendo insomma che quel che occorre è una nuova cultura politica, non un’amputazione della politica.
Nando
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