Il caso Madonia. Lettera da due fratelli di sangue

di Nando dalla Chiesa  e  Pina Maisano Grassi

(pubblicata su l’Unità – 4 luglio 2008)

Gentile Magistrato,
ci rivolgiamo a Lei senza conoscere, e in fondo senza volere conoscere, il Suo nome. Non sappiamo d’altronde neanche a chi queste righe debbano essere più propriamente indirizzate: se ai Magistrati della Corte di Cassazione che hanno prodotto giurisprudenza in materia o al Magistrato del Tribunale di Sorveglianza che tale giurisprudenza ha scrupolosamente applicato.
Una cosa sappiamo con certezza: che un noto esponente del clan mafioso dei Madonia – uno dei più feroci – è stato sottratto al regime del carcere duro per la ragione che non risulterebbero più «attuali» i suoi rapporti con Cosa Nostra. E si capisce. Che motivo vi sarebbe di imporre un regime detentivo più severo a chi, provatamente, non intrattiene più rapporti significativi con l’organizzazione criminale da cui proviene? Vede, gentile Magistrato, l’idea di sottoporre i mafiosi a un regime carcerario particolare, come già era stato fatto – e con successo – con i terroristi, divenne specifica norma di legge sulla spinta di due Suoi colleghi di una certa competenza ed esperienza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Più esattamente sulla spinta delle due distinte stragi con cui la mafia, forse non da sola, decise di fermarli. I Suoi colleghi, infatti, si erano convinti che i capi mafiosi usassero il carcere come luogo da cui continuare a pieno titolo, e talora con maggior prestigio, l’esercizio del comando, attività tanto più rispettata e consentita dal resto dell’organizzazione quanto più i capi stessi potessero esibire una certa benevolenza della magistratura e delle istituzioni verso di loro.
Intervenendo sul regime detentivo, pensavano sempre i Suoi colleghi, i mafiosi sarebbero stati neutralizzati, emarginati, messi nella condizione di non fungere più da punti di riferimento per le trame e gli affari criminali, perfino spogliati del loro carisma e prestigio. E gli affari stessi ne sarebbero risultati ostacolati, sia pure temporaneamente rallentati o spezzati, dando luogo a sbandamenti, incertezze e faticose ricostruzioni delle gerarchie mafiose. Insomma, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino caldeggiavano questo provvedimento per colpire alla radice lo storico, «felice», eversivo rapporto tra mafia e carcere.   (continua)



Lei invece ha ragionato in modo diverso. Lei ha ritenuto che se il carcere duro funziona, ossia interrompe i rapporti del mafioso con la sua organizzazione, ebbene questo debba avere come conseguenza la soppressione dello stesso regime di carcere duro. Ovvero: siccome funziona, lo aboliamo.
Sappiamo come lei argomenta: dobbiamo farlo, perché non risultano più «attuali» i rapporti del soggetto criminale con la mafia. E lo sostiene anche se i magistrati di Palermo insistono nel sottoporre alla Sua attenzione gli effetti devastanti di una simile valutazione.
In fondo la sua logica, apparentemente fantastica, parmenidea, disvela un nucleo di razionalità insuperabile. Sicché proviamo perfino una punta di ammirazione davanti a un tale costrutto aristotelico, a tanta perfezione cartesiana. C’è davvero nel Suo provvedimento una razionalità che ci affascina e conquista. Che evoca in noi la celebre immagine del domatore di pulci il quale, dopo avere tagliato le zampette alla pulce preferita e dopo averle inutilmente ordinato di saltare, annotò con qualche eccitazione «è scientificamente provato che con il taglio delle zampe le pulci perdono l’udito».

Forse Lei si chiederà come mai questa lettera aperta – e dal destinatario incerto – Le arrivi a doppia firma. E proprio con queste due firme.
Semplicemente, ieri mattina ci siamo sentiti dopo avere appreso le prime contraddittorie notizie di stampa sulla Sua decisione. Per chiederci se il boss con tanta e rotonda razionalità sottratto al regime del carcere duro, fosse quel Madonia che ha ucciso il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa oppure quel Madonia che ha ucciso l’imprenditore Libero Grassi (sa, questi sono clan numerosi, e per di più uccidono a grappoli…). Finché abbiamo concluso, da «fratelli di sangue» quali siamo, che non ce ne importa niente di saperlo. Che quanto è accaduto, quel che Lei ha deciso, ci basta per farci rimpiangere, una volta di più, il prefetto e l’imprenditore. Per accarezzare, dentro di noi, l’idea che essi avevano delle istituzioni, delle leggi e dei loro doveri. Per ricordare quei due Suoi colleghi (di toga, anche se non di modi di pensare) che pagarono anche questa idea, per Lei assurda, del carcere duro per i mafiosi; convinti com’erano che dalla mafia si uscisse solo o con la morte o sposando la giustizia dello Stato.
Abbiamo pure immaginato, nella nostra telefonata, che il potere politico, sempre così sfrontatamente invasivo verso l’amministrazione della giustizia, stavolta rispetterà scrupolosamente la divisione dei poteri, cardine e fondamento (come sappiamo) di ogni democrazia.
Grazie, gentile Magistrato, per averci restituito d’un colpo, con la Sua «lectio magistralis» di logica giuridica, il senso delle geometrie e delle distanze che separano gli uomini e i loro mondi etico-affettivi. Le assicuriamo che, ogni tanto, questi richiami alla realtà fanno bene anche a noi.

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