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Genova chiama i diritti umani
(l’Unità, 27 luglio 2008) – “Qui non ci sono bambini”. Tenetela bene a mente questa risposta. Distillatela come un (terribile) segno dei tempi. L’ha data un’ italiana qualunque in un giorno qualunque al comico Andrea Rivera, impegnato a realizzare un servizio satirico per Rai3. Rivera passava per i citofoni delle case popolari romane recitando, con variazioni, lo stesso copione: buongiorno, sono del comune di Roma, stiamo lavorando per prendere le impronte. Lo facciamo per proteggervi, perché si arrampicano sulle grondaie, entrano abusivamente ecc. Finché da un’abitazione non lo fanno nemmeno finire. Appena spiega “Signora dobbiamo prendere le impronte”, la sua interlocutrice compie una fulminea associazione mentale e lo ferma all’istante: “Qui non ci sono bambini”.
Esattamente così. Qui non ci sono bambini. Perché le impronte, per definizione, si prendono ai bambini. Attenzione. Non “anche” ai bambini. Ma “solo” ai bambini. E nemmeno più ai “bambini rom”. Ma a “tutti i bambini”. Difficile non sentire un brivido per la schiena. Ci sono modi di pensare, fraseggi innocenti, barzellette, che riescono da soli a rendere il segno di un’epoca, dello stato di una civiltà. Perché non nascono a caso. Ma sono il frutto di un martellamento, di un lungo lavorio condotto sul cervello, sull’umanità delle persone. Le quali assimilano dose dopo dose le follie logiche, i ragionamenti turpi che normalmente viaggiano sul filo diretto del cosiddetto “investimento politico”, della ricerca paranoica del consenso. Fino a pensare in un modo del quale solo qualche anno prima si sarebbero vergognate. Ma vi immaginate i nostri genitori, quelli del “prima i vecchi e i bambini”, quelli che ci raccontavano le fiabe infantili, quelli che si preoccupavano di non dare scandalo alle “creature innocenti”, ve li immaginate rassicurare i gendarmi in pattugliamento che “qui non ci sono bambini”? E davvero pensiamo che quella singola voce che esce dal popolo sia una frase che nulla ha a che fare con il contesto civile che stiamo vivendo? O con l’ufficiale dichiarazione (che pur sembra porsi su un piano del tutto eterogeneo) dello stato d’emergenza per le nuove ondate di clandestini?
Corrono tempi grami per i diritti umani, il cui rispetto, stiamo scoprendo, non ha alcun rapporto con la loro età. Possono avere secoli, essere stati studiati sui libri di storia per generazioni, ed essere egualmente minacciati, perfino più dei diritti affermatisi negli ultimi anni. E ha un senso se i dieci giorni che la città di Genova ha dedicato loro si sono conclusi ieri con l’avvio della grande campagna di opinione nazionale per il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale che ricorrerà il prossimo 10 dicembre. Una campagna che avrà come protagonisti decine di associazioni, centinaia di comuni e di comitati cittadini. E che, invece di inzuccherarsi di retorica, sarà chiamata a confrontarsi in termini assai concreti, e aspri, e scomodi, con la realtà maledettamente viscida che stiamo vivendo. Ieri all’apertura di questa campagna, svoltasi su un battello in mezzo al mare a significare lo spazio universale dei diritti, gli esponenti delle associazioni lo hanno ripetuto: la difesa dei diritti umani non riguarda solo scenari lontani, ma ci interroga qui e ora. E questo Genova, lungo le sue dieci giornate, lo ha detto direttamente; e senza infingimenti ha cercato di discuterlo. Parlando dei clandestini che lavorano (e muoiono) a tre euro al giorno. Vissuti come orda barbarica quando arrivano sulle nostre coste ma accolti avidamente nei cantieri e nelle campagne; “assunti” con una pacca sulle spalle ma liquidati cinicamente al primo incidente, magari portati a morire (clandestinamente) in un posto lontano se vittime ancora in vita della caduta da un ponteggio. Oppure parlando della giovanissima Rita Atria, collaboratrice a diciassette anni del giudice Paolo Borsellino, disperatamente suicida dopo la strage di via D’Amelio e seppellita in una tomba ancora senza nome. Ma anche parlando delle violazioni dell’habeas corpus consumate alla Diaz e a Bolzaneto in quell’inaudito luglio del 2001. E sperimentando con inquietudine quali ne siano ancora oggi gli strascichi, se è vero che i ragazzi stranieri che scelsero di testimoniare e di costituirsi parti civili ancora oggi subiscono controlli mentre passeggiano in città così da aver paura di camminarvi o di manifestarvi pacificamente. Ferite difficili da rimarginare, e che la stessa Genova fatica a misurare, assente com’è dai momenti della testimonianza fisica dei diritti violati, quasi consegnati -nelle ricorrenze- a chi se li vide violati e a pochi avvocati e militanti dalla sinistra radicale, come se i diritti non fossero, come sempre si dice, di tutti.
Anche perciò il fatto che un’amministrazione abbia dedicato tanta attenzione a un tema come questo, sfidando se stessa e il proprio elettorato prima di tutti, è stato un gesto di coraggio. Perché, come abbiamo imparato e sempre più stiamo imparando, il demone del razzismo e dell’indifferenza per i diritti umani non risparmia nessuno, pronto com’è ad arrivare appena i media si scatenino nella caccia al bersaglio di turno e – in sovrappiù – chi governa o chi amministra dimostri di considerare la sicurezza dei propri concittadini un optional da sacrificare alle proprie ubbie o astrazioni ideologiche. Per fortuna la sfida ha smosso e rappresentato gli ambienti più diversi (perché, sempre per fortuna, anche le culture liberali e umanitarie non hanno recinti). Per chiudersi con il primo concerto cittadino di Manu Chao. Simbolicamente. E non solo perché Manu Chao è tra gli artisti che più hanno voluto legarsi a questa grande causa. Ma perché, come raccontano le testimonianze delle parti civili di Bolzaneto, furono molti in quella notte di tragica follia (che sembrò però tanto tranquilla al ministro della Giustizia di passaggio dal carcere) a essere vessati, pestati e poi irrisi con la formula beffarda “E ora dillo a Manu Chao”. Come se, per chissà quale furore, gli uomini in divisa si fossero convinti che in una Repubblica democratica non ci siano né leggi né tribunali. Sì, i diritti umani sono davvero da difendere. Qui, senza incertezze. Tutti. Che la data del 10 dicembre ci mobiliti in un impegno capace di andare oltre ogni celebrazione. O un giorno saremo costretti a fare i conti in modi impensabili con la cultura che ci è stata messa progressivamente nel sangue. Quella che spunta da un citofono e dice “qui non ci sono bambini”.
Nando
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